Ma quale secolo cinese, Pechino ha ancora tanta strada da fare
09 Febbraio 2011
Si è molto discusso se il recente vertice tra il leader cinese Hu Jintao ed il Presidente statunitense Barack Obama rappresenti non solo il primo passo verso un direttorio mondiale tra Cina e Stati Uniti ma costituisca anche il segnale di come gli equilibri di potenza si stiano spostando da Washington a Pechino. Tuttavia l’incontro, per quello indicato come il prossimo“G2”, è servito solo a smussare gli angoli e ad eliminare alcuni degli elementi di tensione nei rapporti tra i due Paesi che si presentano assai più complessi di quanto viene generalmente viene indicato. Se diversi osservatori sostengono come il rapporto tra la Cina e gli Stati Uniti è ormai quello tra una potenza in declino ed un’altra la cui ascesa sembra inarrestabile, in realtà ad una più attenta analisi si può dire come questa affermazione risulti invece quantomeno azzardata dato che, aldilà della sua innegabile ed impetuosa crescita, la Cina presenta tuttora degli squilibri che lo sviluppo di questi ultimi anni non ha affatto eliminato.
Se si guarda oltre i dati del PIL, appare chiaro come l’economia cinese presenti infatti non pochi punti interrogativi che in futuro potrebbero mettere a rischio il suo stesso modello economico. Il primo riguarda la sempre più marcata disuguaglianza sociale nel Paese. In Cina accanto ad un’élite arricchitasi con le privatizzazione ed il business, la stragrande maggioranza della popolazione deve accontentarsi di un salario medio di 415 dollari USA e questo senza dimenticare come le aziende cinesi non offrano adeguate tutele sociali e sindacali ai propri dipendenti spesso costretti a turni di lavoro assai più lunghi delle otto ore giornaliere previste dalla legge. Nelle zone rurali almeno 55 milioni di persone vivono o in condizioni di povertà assoluta oppure dispongono di un reddito inferiore a quello minimo ed anche se la tumultuosa crescita degli ultimi anni ne ha considerevolmente ridotto il numero non si può non sottolineare come in Cina il livello sia calcolato attraverso gli standard locali e non internazionali, per cui un cittadino è considerato “povero” se gode di un reddito annuo inferiore a 785 Yuan ovvero 115 Dollari.
La qualità della vita resta quindi ancorata a livelli bassi e lontana dagli standard occidentali, tanto che, se si guarda all’“Indice di Sviluppo Umano”, una speciale classificazione realizzata dall’UNDP e che include come elementi di valutazione non solo il reddito ma anche l’alfabetizzazione e l’accesso ai servizi sanitari la Cina si colloca solo al 94° posto, mentre sul piano ambientale la situazione si presenta ancora più critica. Secondo un’indagine della Banca Mondiale sedici delle venti città più inquinate si trovano in Cina mentre, sempre secondo la stessa inchiesta, un sesto dei cinesi si trova esposto al rischio di carenze idriche o di attingere ad acqua inquinata da scorie industriali. Il secondo problema risiede invece nel rapido aumento dell’inflazione e, di conseguenza, nel sempre maggiore aumento dei prezzi dei beni di prima necessita. In un Paese in via sviluppo come la Cina i generi alimentari assorbono una percentuale di gran lunga superiore che in occidente nei consumi della popolazione ed un aumento del loro prezzo sul mercato potrebbe condurre a gravi tensioni e disordini sociali. Ed è questo a preoccupare maggiormente i dirigenti politici di Pechino, i quali sanno bene che proprio il rapido incremento dell’inflazione fu alla base sia del crollo del regime nazionalista nel 1949 che delle violente proteste esplose quarant’anni dopo a piazza Tien An Men.
I bassi salari percepiti ed il costante aumento dei prezzi già oggi rendono difficile ad una parte significativa della popolazione l’acquisto di alcuni alimenti base e non è un caso che il livello di insoddisfazione per le difficili condizioni di vita, unito alle proteste per le sempre più marcate differenze sociali e per la dilagante corruzione, abbia raggiunto la percentuale più alta degli ultimi anni. E pure se il governo cerca di impedire la diffusione di notizie ritenute dannose all’immagine del Paese, stando a quanto riferito da fonti indipendenti ogni anno in Cina si verificherebbero migliaia di scontri tra dimostranti e polizia causati dalla perdita di potere d’acquisto dei salari nonché dal ritardo nel loro pagamento da parte di alcune aziende. Ma l’incremento dell’inflazione non comporta solo il rischio di alimentare delle proteste popolari ma anche quello di favorire l’emergere di pericolose ondate speculative che potrebbero porre a rischio la stessa crescita del Paese. L’alto livello dei prezzi unito ai bassi tassi d’interesse praticati dagli istituti di credito ha reso di fatto infruttiferi i depositi bancari e spinto i risparmiatori verso l’acquisto di proprietà immobiliari, una corsa che ha portato il valore delle case nei centri urbani a livelli record e reso così quanto mai difficile l’accesso al mercato anche a chi dispone di redditi di medio livello.
Allo scopo di impedire l’esplosione della “bolla” immobiliare, le autorità monetarie hanno quindi deciso nelle scorse settimane di rialzare i tassi d’interesse sui depositi dal 2,25% al 2,50%, una mossa che però, a detta dei commentatori, non appare sufficiente per fermare la speculazione. L’elevata inflazione, i cui livelli potrebbero essere ben più alti di quelli ufficialmente comunicati dal governo, sta inoltre ponendo un serio problema alle aziende che operano nel Paese. Se da un lato l’aumento dei prezzi contrae il potere d’acquisto dei salari, dall’altro l’aumento delle retribuzioni promosso da alcune amministrazioni provinciali come quella del Guangdong spinge invece un gran numero di imprese a chiudere l’attività in quanto il loro margine di guadagno va sempre più assottigliandosi. Ed una conferma in proposito viene dal “South China Morning Post”, che in un articolo apparso alcuni giorni fa afferma come almeno un terzo delle aziende di proprietà di imprenditori di Hong Kong presenti nel Guangdong prevede di non riaprire l’attività dopo la pausa festiva del Capodanno Lunare.
Ma è la stessa struttura dell’economia cinese che nel lungo periodo è destinata inevitabilmente a cambiare. La forte espansione conosciuta dal Paese in questi anni è dovuta essenzialmente a due fattori, quali l’ampia disponibilità di manodopera ed i bassi salari che hanno reso altamente competitivi sui mercati i prodotti cinesi. Questo ha portato Pechino a disporre di uno straordinario surplus commerciale e di un livello record di riserve in valuta pregiata che vengono investite principalmente in titoli del debito pubblico statunitense. La Cina resta quindi un Paese esportatore dove i consumi interni assorbono una percentuale nettamente inferiore a quella dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Ma in futuro questo quadro è probabilmente destinato a cambiare. Se nell’immediato il regime appare in grado di controllare le tensioni causate dalla corsa dei prezzi ed a limitare la spinta al rialzo delle retribuzioni, è probabile invece che nel medio – lungo periodo Pechino sarà costretta non solo a rivalutare lo yuan e ad adottare un politica monetaria assai più severa per contenere l’inflazione ma anche a incrementare i salari ed a venire incontro alle rivendicazioni dei lavoratori.
Allora il tasso di crescita dell’economia cinese inizierà a rallentare riequilibrando così il suo spropositato surplus commerciale. Ma a quel punto, la nuova fase economica potrebbe produrre degli effetti anche sul piano politico. Non è escluso infatti che alle richieste salariali dei lavoratori possa unirsi pure una spinta da parte dei ceti più agiati per chiedere maggiori aperture da parte del regime. Del resto questa dinamica passato si è già registrata in altre nazioni emergenti dell’Asia come Corea del Sud e Taiwan. Ma diversamente da quelli sudocoreano e taiwanese, il regime cinese è assai più totalitario e repressivo e con un partito che non appare disposto a nessuna concessione.