Ma quale “Tv rubata ai bambini”. Se la Melevisione chiude ci sarà un perché

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Ma quale “Tv rubata ai bambini”. Se la Melevisione chiude ci sarà un perché

17 Febbraio 2010

All’interno dell’insigne quotidiano che ospitava la pronta risposta di Guido Bertolaso alle dieci domande (ancora? Ebbene sì) di Eugenio Scalfari, campeggiava un inserto che sfoggiava un’“inchiesta”, intitolata “La TV rubata ai bambini”, dedicata a stigmatizzare la sospensione dalla televisione pubblica generalista di alcune trasmissioni per l’infanzia (o per meglio dire, il loro prossimo trasferimento a un canale dedicato, sempre della TV pubblica, ma tematico). Alle penne di Edmondo Berselli e Leandro Palestrini era affidata quindi l’arringa accusatoria, nella duplice versione di deplorazione della scelta RAI (con tanto di richiamo alla funzione “pedagogica” del servizio pubblico) e di denuncia dei suoi contraccolpi sul pubblico dei ragazzi, “condannati” – in mancanza di alternative – a farsi spettatori di oscenità come quelle propinate da Maria De Filippi.

Nel complesso, un ottimo esempio di quello che fu un tempo definito atteggiamento “apocalittico” verso la TV. Non tanto per la propensione a vedere il bicchiere mezzo vuoto: ma per quella a vederlo mezzo vuoto anche quando, come in questo caso, è pieno a tre quarti. Nei due articoli che compongono l’inchiesta non si fanno se non cenni sfuggenti a quella che rappresenta ormai da tempo la vera novità dell’offerta televisiva per l’infanzia: vale a dire, la nascita di canali tematici dedicati esclusivamente ai più piccoli, alieni  da eccessi di spot e senza programmazione di altra natura L’occasione è stata offerta dal passaggio al digitale terrestre, e dalle nuove frequenze rese disponibili: tanto Mediaset, che è stata la prima, quanto la RAI, ma anche le TV locali, si sono mosse per organizzare palinsesti nuovi, gratuiti e soprattutto completamente dedicati al pubblico infantile, con contenuti di qualità (come Hello Kitty o Scoby Doo, senza contare le numerose e ottime produzioni italiane) limitando o in qualche caso eliminando del tutto la componente pubblicitaria. Qualcosa di meglio, insomma, della “nonna del Corsaro Nero” o delle trasmissioni scolastiche di Febo Conti che Berselli rimpiange.

Boing, Rai Gulp, Rai Sat Yoyo (disponibile anche su digitale terrestre), K2, Gold Cartoon… non solo i bambini i cui genitori, come afferma Palestini, “hanno la possibilità di pagare un abbonamento”, possono trovare oggi un’offerta televisiva dedicata a loro, e proveniente anche e soprattutto dalla TV pubblica – che non corre dunque il rischio paventato da Berselli di “relegare se stessa a un ruolo secondario”. Gli stessi giornalisti, peraltro, ammettono che gli ascolti realizzati dalla “TV dei ragazzi” su Rai Tre erano ormai “lillipuziani”: e che le ragioni del calo devono rintracciarsi non da ultimo nella moltiplicazione dell’offerta (ma omettono di chiarire che non si tratta solo di quella satellitare a pagamento: in questa prospettiva, le spallucce alzate di fronte alla pay-tv assomigliano ancor di più a una reprimenda anticapitalista, più che a fondate considerazioni di merito).

A sostegno della loro prospettiva, entrambi i giornalisti adducono le ragioni dell’Auditel – sempre biasimata quando si tratta di condannare il successo di qualche reality, ma sempre invocata quando si tratta di giustificare analisi televisive “commestibili” anche per i non addetti ai lavori. E’ il caso dell’inchiesta in questione, che fa rilevare come “metà della platea televisiva tra i 4 e i 14 anni segue “Uomini e donne”. A uno sguardo più attento, si scopre che a guardare le “altre TV e satellitari” – quindi non solo SKY, come si legge nell’articolo – è il 46,95% dei bambini, in crescita costante da 10 anni a questa parte; e che semmai a sintonizzarsi sulle reti Mediaset (e quindi non solo la De Filippi: anche dalle parti del Biscione esistono i cartoni animati) è solo il 38,69% di loro.

Numeri a parte, come sempre, i dati sull’audience vanno interpretati. Qual è la percentuale sul totale dei bambini tra 4 e 14 anni che guarda la TV di pomeriggio? Quanti sono dunque realmente, fatte salve le considerazioni appena svolte, i bambini italiani ai quali “non resta che guardare i tronisti”? E’ davvero possibile affermare in leggerezza che questi bambini diventeranno “piccoli emuli di Fabrizio Corona” (come recita uno dei titoletti, più istruttivi ancora – se possibile – dell’articolo)? Una simile conclusione sarebbe stata forse facile da trarre se l’analisi fosse stata condotta secondo i dettami delle prime metodologie di analisi televisiva, quelle “ipodermiche”, in auge tra gli anni Venti e Trenta, che postulavano un effetto diretto e immediato del messaggio mediatico sullo spettatore; ma forse nemmeno i sostenitori di questo tipo di analisi si sarebbero sentiti di sottoscrivere una simile illazione.

Se invece si volesse procedere oltre, e condurre un’analisi reale, seria e approfondita sul consumo televisivo, non si dovrebbe ritenere sufficiente l’esibizione dei dati d’ascolto (che pure, come abbiamo visto, non accennano nella direzione che si vorrebbe suggerire), ma occorrerebbe affiancarli a una serie di considerazioni su quello che alcuni hanno definito il “governo della TV”, sulle effettive modalità di fruizione del mezzo e del messaggio televisivo, sulle strategie di negoziazione domestica che lo riguardano. In altre parole: chi sono i bambini che guardano Maria De Filippi al pomeriggio?

Probabilmente non sono in casa da soli; probabilmente con loro c’è una madre, un fratello, una nonna, una tata. E allora, chi ha in mano il telecomando? Chi decide davvero cosa guardare? Se la risposta non fosse così indubitabile come parrebbe dall’impostazione dell’inchiesta di Repubblica, varrebbe la pena di ribaltare la domanda di Berselli circa la preoccupazione che i genitori dovrebbero nutrire circa la TV che i loro figli guardano: e domandarsi se a preoccuparli debba essere la TV, o non piuttosto se stessi e la loro responsabilità verso i figli, che nessuna televisione, per quanto responsabile e politicamente corretta, può sostituire.