Machina dolens

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Machina dolens

21 Agosto 2009

I

Strano che in una cittadina così lontana da tutto ci fosse un museo della scienza e della tecnica. Sotto il sole a picco le strade erano dritte e vuote e le case bianche; solo qualche uccello invisibile gettava a tratti un grido solitario.
Francisco Ibarra si avvicinò alla porta a vetri del basso edificio e facendosi schermo con la mano guardò nell’interno. Un’anticamera con un tavolo e una sedia, una porta chiusa da una tenda scura, da cui probabilmente si accedeva all’esposizione. L’idea di visitare il museo gli parve incongrua e divertente: spinse la porta ed entrò. Comprò il biglietto da un uomo in maniche di camicia sbucato dal nulla e, scostata la tenda, si trovò in uno stanzone chiaro e polveroso come la cittadina che dormiva nel sole.
Lungo le pareti c’erano degli armadi a vetri e qua e là nella sala stavano alcune bacheche, con grandi spazi frammezzo. Mentre faceva il giro, Francisco notò che il custode si era messo a cavallo della porta e stava lì a farsi vento. Da vedere c’era ben poco: una bacheca conteneva alcuni minerali di vario colore, ciascuno col suo cartellino vergato a mano con inchiostro stinto, in un’altra c’erano alcuni circuiti elettrici elementari, in cui certe parti erano sostituite da uno schema disegnato su un cartoncino bianco; poi c’erano bobine, magneti, bussole sbilenche, lenti appannate, un prisma sbreccato, lampadine di varie forme e potenze, la fotografia di una turbina Pelton, alcune valvole termoioniche. Negli armadi erano esposti molti uccelli impagliati, il modellino di una macchina a vapore con una paginetta di spiegazione, alcune provette, matracci, un alambicco di rame ammaccato, un’antenna radiofonica a rombo venuta da chissà dove…
Ibarra si voltò e vide che il custode lo stava guardando. I loro occhi s’incontrarono e l’uomo sorrise, chinando leggermente il capo. Dalle finestre il sole entrava a formare tre chiazze nettissime sul pavimento arido e Francisco rimase abbacinato da tutto quel chiarore. La voce del custode lo stupì per il suo tono sommesso e suadente:
– Non è molto interessante, questo museo, vero? Qui siamo in una piccola città, e Lei sarà abituato a ben altro.
Francisco si sentì imbarazzato ed esitò, ma l’altro continuava:
– Eppure, vede, anche noi qui abbiamo qualcosa che forse Lei non ha mai visto.
Il custode gli si era avvicinato, e i suoi occhi scuri erano intensi, quasi febbrili. Era più giovane di quanto facessero pensare le spalle curve e la pelle bruciata. Dall’esterno giungevano ogni tanto quei gridi d’uccello, come richiami dentro il cielo immobile.
– Ah, e cioè?
Ibarra non voleva essere scortese e poi provava una certa simpatia per il custode.
– Macchine. Abbiamo delle macchine molto strane, come cagnolini. Le regalò al museo don Bernardo Gurrìa, molti anni fa. Le aveva costruite suo figlio. Suo figlio era ingegnere, aveva studiato, sa? Anche all’estero. Vuole vederle?
Francisco esitava, quel discorso gli pareva sconclusionato, forse c’era una punta d’isterismo nella voce dell’uomo. Ma questi già si dirigeva verso un armadio in fondo alla sala e l’invitava a raggiungerlo.
– Guardi, eccone qui una. Ma questa non funziona, arrivò qui già guasta. E l’unico che avrebbe potuto ripararla, il figlio di don Bernardo, ormai…
– Ormai?
– Sì, ormai era stato rinchiuso. Deve averlo visto il manicomio, venendo qui, no?
Francisco ricordò le muraglie cieche e l’enorme portone sotto il sole; rabbrividì leggermente. Si avvicinò all’armadio  e su un ripiano vide una specie di cuscino scuro e infeltrito, che poggiava su tre rotelline; una fila di borchie lucenti gli attraversava il dorso: a un capo un’appendice sfilacciata e all’altro un rigonfiamento gli davano un vago aspetto di talpa. Sul muso un fanalino si ergeva come un singolo occhio, cieco e polveroso.
– Le altre sono fuori, qui vicino. Quelle funzionano. Venga.
A Francisco vennero in mente le macchine cibernetiche di Grey Walter. Che si trattasse di una machina labyrinthea, costruita in forma grottesca da un bislacco studioso di provincia la cui genialità si era intorbidata di follia? O magari era una machina docilis…
– E da quanto tempo è ricoverato, il figlio di don Bernardo?
Il custode si era già avviato verso una porta ben dissimulata nella parete, tra due armadi, e l’aveva aperta su un cortiletto pieno di una luce verdognola filtrata da alcuni alberi.
– Don Vicente? Saranno almeno trent’anni. Io non l’ho mai visto, ma dicono che faccia paura.
Ibarra fece un rapido calcolo: se quelle erano macchine cibernetiche, Vicente Gurrìa aveva preceduto Grey Walter di una ventina d’anni. No, era assurdo, a quei tempi non si conoscevano neppure i principi della cibernetica… Eppure l’aspetto di quella talpa su rotelline…
In fondo al cortiletto c’era una bassa costruzione di mattoni con una finestrina inferriata e una porta scolorita.
In alto, tra le fronde immobili, biancheggiava il cielo del meriggio. Fatti pochi passi il custode si arrestò di colpo.
– Mi scusi, – disse, – ho dimenticato la chiave, corro a prenderla.
E tornò indietro, scomparendo dentro il museo.
Francisco si avvicinò alla finestra e tentò di vedere oltre i vetri polverosi, ma nel barbaglio del cortile l’interno era nero. Stette lì, con le mani aggrappate alle sbarre dell’inferriata. Gli sembrò di udire un pigolio sommesso, che andava e veniva, un guaito fioco e molteplice, con una nota appassionata. Nell’aria torpida i gridi degli uccelli dalle grondaie avevano un suono ben diversamente forte e si allargavano sulla città, nel silenzio delle piazze, nell’ombra dei giardini. Ma quel pigolio veniva da lì, da quel vano oscuro, e c’era in esso una struggente incoerenza, un’ansia inconsapevole e smarrita, come di una creatura paurosa e affranta…

II

Era chiuso in una bolla che fluttuava per uniformi densità di azzurro. Da un orizzonte invisibile giungevano richiami indistinti, come se altre bolle fossero sospese in quella vastità. A tratti da punti essenziali nasceva una vibrazione confusa che si allargava rinforzandosi e lo percoteva in un luogo interno e dolorante con ondate di giallo. Quel punto rispondeva con aneliti pulsanti, piccoli turbini si allargavano gorgogliando nella bolla e ne urtavano le pareti. E un urgere dentro, un’angoscia appassionata verso i richiami lontani, verso quei flutti improvvisi di giallo. Violacei singhiozzi salivano dalle altre bolle, si addensavano e premevano, premevano in quel luogo interno e lancinante, finché egli emetteva il suo richiamo rauco e furente tra neri coaguli di disperazione. E riprendeva i suoi giri prigionieri verso fantastici varchi di giallo caldo e aranciato. Ma ecco un altro crollo che lo lasciava nel mezzo di quell’azzurro soffocante e lo allontanava dall’oggetto splendido e incommensurabile del suo desiderio… A volte se lo figurava, questo oggetto, traendolo da pieghe insondabili del suo essere, come un’arditissima chiazza rossa e palpitante: verso di essa salivano schiumando le altre livide bolle che si aggiravano in quell’azzurro vischioso di sempre. In quella macchia rossa tutto si sfaceva e si acquietava, quel punto sommerso e bruciante che si portava dentro finalmente si scioglieva, colava via, tornava nel luogo denso e abissale da dove era stato evocato. Ma l’immagine della chiazza si disfaceva, ondate violacee striavano l’azzurro, un coro di singhiozzi percoteva quell’opacità ed egli girava, girava su di sé, nella sua bolla…
D’un tratto comparve nelle plaghe disfatte un bagliore verde, reminiscenze vaghissime si mossero nel suo fondo ed egli si trascinò con la sua bolla, dirigendosi verso quello zampillo luminoso, un filo di sollievo nel luogo bruciante e addolorato. Sentì che anche altre bolle tendevano da quella parte, si unì al coro dei richiami, dei lamenti prolungati in cui gorgogliavano brandelli di ricordi, schegge sdrucite di coscienza…

III

Il custode aveva aperto la porta su una specie di rimessa che pareva completamente vuota. Il pigolio veniva proprio da lì e ora lo si sentiva chiaro e discorde; nell’aria stagnava un odore di pelliccia bagnata e di ferro. Mentre Francisco cercava con gli occhi per le pareti, sentì un urto leggiero al polpaccio: una forma oscura e arrontondata lo premeva, come annusando. Pigolava forte, come di gioia o di sorpresa, e sul suo dorso luceva la fila delle borchie. Ibarra ritrasse istintivamente la gamba, ma si sentì urtato all’altro polpaccio da una di quelle creature: tutta la stanza ne era piena, avanzavano verso i due uomini con movimenti lenti, a ruote larghe che cominciavano chissà dove, tra quegli squittii.
– Non abbia timore, non Le faranno nulla. Fanno l’impressione di cuccioli, no? Eppure sono macchine.
Dietro di lui l’uomo si era chinato e dava piccole spinte a quegli strani esseri, allontanandoli bruscamente da sé e poi aspettando che dopo un’esitazione ritornassero brancolando per allontanarli di nuovo con precisione crudele. Nella rimessa lo stridio cresceva, quelle bestie o macchine si erano eccitate, si accalcavano urtandosi intorno ai due uomini. Francisco notò che il lumino che portavano in fronte cominciava ad emanare una fioca luce azzurrata che aumentava via via d’intensità e palpitava in accordo con quei gridi.
– Ma che cosa le fa muovere?
Il custode gl’indicò una grossa scatola nera che s’intravvedeva sul pavimento, in fondo alla stanza.
– Là c’è una presa di corrente e quando una macchina ha fame vi si attacca e in pochi minuti si ricarica la batteria, e poi torna a girare.
Gli esseri si agitavano e premevano, urtando i piedi di Francisco, i pigolii si levavano ora quasi rabbiosi ed egli si sentiva inquieto, come se quei gridi giungessero da plaghe remote, da sacche dimenticate del tempo e gli parlassero di luoghi mai scandagliati, di desideri inesprimibili e struggenti. Erano fremiti dolorosi, slanci furenti di disperazione. Che cosa cercavano, quegli esseri, in lui e nel custode?
– Ma fanno sempre così quando c’è qualcuno?
– Sì, – disse l’uomo risollevandosi e sorridendo, – è divertente, no? Ma dopo un po’ ci si stufa e bisogna andarsene… Una volta ho fatto entrare un cane qui, un cane grosso e forte, e l’ho chiuso dentro. Doveva vedere…
A Ibarra quella storia non piaceva, e interruppe il custode con un’altra domanda.
– E Gurrìa? Gurrìa il giovane, voglio dire. Perché costruì queste macchine?
E avrebbe voluto dire: come poté costruire creature come quelle, così dolci e inquietanti, così disperatamente dolenti e appassionate?
– Mah, era uno studioso, stava sempre chiuso in laboratorio, dicono. A un certo punto cominciò a dare nel matto, per un po’ lo tennero in casa, nascosto, poi non fu più possibile e dovettero rassegnarsi. Ma son tutte cose che ho sentito dire, io ero appena nato. Le macchine furono portate qui al museo, c’era anche un quaderno di appunti. Fu costruita la presa di alimentazione e da allora nulla è cambiato. Le macchine qui e Gurrìa in manicomio.
Per Francisco Ibarra la tensione era diventata insopportabile: quel premere contro le gambe, quei lamenti, l’odore di ferro e di pelo umido lo stavano soffocando.
– Andiamo via, usciamo di qui.
Tornarono nel cortile e mentre il custode chiudeva la porta, Francisco ebbe un’ultima visione di quei lumi azzurrini che si aggiravano smarriti, sbandandosi in ampie oscillazioni, mentre i guaiti riprendevano più supplichevoli e strazianti. Fuori la luce si era addolcita e il caldo non era più tanto crudele.
– Se vuole può uscire anche da qui, si fa prima.
Ibarra diede una mancia all’uomo e senza guardarlo uscì rapido dalla porticina. Si trovò in una stradetta polverosa, le persiane delle case erano chiuse e i fili della luce tagliavano neri lo smalto scolorito del cielo.
Si voltò di scatto al custode che stava già per chiudere l’uscio.
– Senta, che cosa successe a quel cane?
– Il cane? Ah, sì… be’, impazzì, povera bestia.

IV

La vecchia serva gli fece strada per un fresco corridoio fino a un patio, che dava su un giardino ombroso di magnolie. Da una fontanella coperta di muschio scendeva un filo d’acqua rugiadosa. Dietro il muro di fondo s’indovinava un altro giardino e si scorgeva il ciuffo di una palma contro il cielo dove garrivano le rondini.
A Ibarra parve d’un tratto assurdo essere lì, in casa di don Bernardo Gurrìa, in una cittadina sperduta dove veniva per la prima e forse per l’ultima volta. Che cosa avrebbe potuto dire o chiedere al vecchio che non sembrasse irragionevole o indiscreto? L’inquietudine che aveva provato nella rimessa, quel cane impazzito là nella semioscurità rischiarata dai lumini azzurrognoli che giravano, giravano, inseguendo sé stessi dentro il sogno di un sogno…
Un rumore lento di passi, ecco don Bernardo. Francisco si volse: verso di lui avanzava un vecchio nodoso, completamente calvo, che si appoggiava al braccio di una donna giovane e bellissima. Venivano dalla profondità oscura della casa verso la luminosità soffusa del tramonto. I due sedettero in silenzio su poltrone di vimini e quando anche Francisco si fu seduto, il vecchio lo guardò con occhi brucianti e tristissimi, che gli mangiavano il volto rugoso:
– Dunque, signor Ibarra, Lei ha chiesto di vedere don Bernardo Gurrìa.
Le rondini, le magnolie e le gote della giovane silenziosa si allontanarono verso lo sfondo, dove stettero sospese, palpitando leggermente.
– Volevo conoscere il padre di don Vicente, me ne hanno parlato…
Il vecchio sussultò appena e anche la bocca della donna ebbe una contrazione minuscola, quasi impercettibile.
– Mio figlio, signore, mio figlio l’ho perduto ventotto anni fa. Dicono che sia ancora vivo, ma dai lisci pozzi della follia non mi giunge la sua voce.
Gli occhi di don Bernardo lasciarono finalmente il volto di Francisco, vagarono sulle magnolie, sul muro di cinta. Sotto il portico si allargò il chioccolio della fontanella, s’infilò il garrire delle rondini ebbre che si abbassavano a sfiorare la palma.
Che cos’era accaduto in quella casa silenziosa ventotto anni prima? Don Vicente torna da viaggi lontani, ha frequentato le università, ha letto i libri, ha parlato coi maestri. Sospinto per abbaglianti sentieri da un’idea che è già il principio della follia, costruisce con le sue mani quelle macchine angosciate.
– E le macchine che costruì?
– Quali macchine? Mio figlio non costruì macchine. Fece solo qualche esperimento, giù in cantina… aveva degli strumenti. Era uno studioso, mio figlio, capisce?…
Il volto del vecchio era pallido e immoto come una maschera. Come si poteva chiedergli di rievocare, di ammettere, di spiegare?
La donna guardava Francisco con occhi rassegnati, sulle sue gote si soffondeva la luce rosea e incarnata dell’ora. Forse altre volte, nelle sere estive, sotto la loggia aperta sul giardino aveva raccolto o intuito un frammento elusivo e variabile di quella tragedia lontana; forse da quelle tessere congetturali aveva ricostruito nel tempo un’ipotetica verità, un incerto mosaico di ombre e sussurri. I profumi esalavano intorno, Francisco pensò a quelle macchine, come oscure talpe, che si venivano allineando nella cantina, pensò a Vicente che con mani tremanti ricopriva di pelliccia i meccanismi rudimentali delle loro anime.
– No, mio figlio non costruì macchine, raccoglieva materiale, sì, certo, molto materiale, anche pellicce d’animali… E lavorava sempre, sempre… a volte dormiva laggiù.
Dormiva tra quegli esseri, ne ascoltava il pigolio, quel doloroso richiamo cui non si può resistere a lungo. Subiva l’influsso greve di quelle creature che senza loro colpa egli aveva tratto dal nulla per gettarle in una semivita frammentaria e paralizzante, agitata da sprazzi foschi e baluginanti, da empiti soffocati.
– E non venivano rumori, don Bernardo, dal laboratorio di don Vicente?
– Rumori? Quali rumori? Non si udiva nulla, nulla. La casa è silenziosa… Ascolti.
A quell’ora la città doveva essere piena di gente e sotto i portici della piazza del Plata doveva svolgersi il passeggio della sera. Ma nel giardino dei Gurrìa non giungeva quel fervido brusio. La serva portò una caraffa e tre bicchieri, a un cenno della giovane versò e scomparve.
Una pazzia sottile, insinuata in don Vicente dalle sue creature, nelle quali aveva distillato un po’ di coscienza, quel tanto che bastava perché soffrissero di non averne di più… Machina labyrinthea, machina docilis, pensò Ibarra, macchina che apprende… Ma forse in quel caso era meglio parlare di machina dolens…
– E Lei, signor Ibarra, che cosa fa?
Vicente, lo sguardo smarrito, si chiude in sé, si affaccia sull’abisso donde ha suscitato quella pena; vi scorge la lenta spirale della follia che sale verso di lui. Vaneggia, si scatena in violenze, lo rinchiudono in casa, ma dalla cantina, attraverso le pareti, gli giungono i pigolii delle sue creature che lo cercano, lo straziano coi richiami…
– E si tratterrà molto qui, signor Ibarra?
Il nome antico dei Gurrìa copre a lungo la demenza del giovane, ma don Vicente ha minacciato di uccidersi se gli distruggono le macchine. Lo scandalo non può più essere soffocato… Francisco guardò il volto rugoso di don Bernardo, gli occhi stellanti della donna. Gli parve che sulle sue labbra aleggiasse un sorriso. Contro il cielo che si faceva azzurro la palma si moveva appena, con un fremito secco.
Il vecchio gli faceva ancora una domanda estenuata, lo guardava come se non capisse la risposta, negli occhi gli bruciava qualcosa d’intenso e remoto.
– E’ stato un piacere, signor Ibarra. E ora, se vuole scusarmi, sono molto stanco.

V

Quella notte nel suo albergo Francisco Ibarra dormì sonni inquieti e l’indomani, sbrigati i suoi affari con il libraio José Hartmann, tornò a riposare. Si svegliò nel tardo pomeriggio; nell’aria ferma e soffocante della stanza ronzava a tratti un moscone. Gli vennero in mente la visita al museo e il colloquio con don Bernardo; rivide la muraglia grigia del manicomio.
Si alzò dal letto, barcollando andò al lavamano, si versò dell’acqua e si sciacquò gli occhi, il viso sudato. Si vestì e uscì dalla locanda. Principiava la sera, per le strade c’era un certo movimento, davanti a un caffè alcuni giovani scherzavano ad alta voce. Passò davanti al palazzotto dei Gurrìa, bianco e serrato dietro le gelosie. Proseguì per oblique stradine evitando la piazza e sbucò quasi all’improvviso dinanzi alla mole triste del manicomio.
Venne ad aprirgli un vecchio obeso, dal viso flaccido.
– Vorrei vedere uno dei pazienti.
– Prego, si accomodi.
L’atrio era fresco dietro le mura spesse, da una vetrata incendiata dal sole si diffondeva per l’aria un pulviscolo luminoso, che rievocava altri pomeriggi, altre vetrate accese dal tramonto nell’infanzia lontana.
– Chi vuole vedere?
– Don Vicente Gurrìa.
L’uomo grasso lo guardò sollevando le palpebre pesanti, poi premette un pulsante, prese un tubo che pendeva dal muro e ci parlò dentro.
– Signor Direttore, c’è un signore che vuole vedere don Vicente Gurrìa… Non lo so… Lei è un parente?… No, signore, non è un parente… Va bene, signore.
Porse a Francisco il tubo.
– Il Direttore. Prego, parli pure.
– Sì, sono Francisco Ibarra, sono qui di passaggio. Le sarei grato se mi facesse parlare con don Vicente… No, non sono un parente, e neppure un amico… No, non lo conosco, non l’ho mai visto… Ho saputo delle macchine, quelle macchine che don Vicente aveva costruito tanti anni fa… Sì, le ho viste qui al museo, ieri… ho parlato anche con don Bernardo…
La voce del Direttore era cortese, ma il tubo le conferiva inflessioni metalliche e recise. A tratti pareva che vi si mescolassero stridii e acute riverberazioni.
– Potrei almeno vederlo da lontano?… D’accordo, grazie, buonasera.
Il portinaio riprese il tubo per ascoltare le disposizioni del Direttore, poi staccò da un chiodo nel muro un gran mazzo di chiavi e disse a Francisco di seguirlo.
Lasciarono la luce dell’atrio e s’immersero nell’oscurità di lunghi corridoi. Qua e là una finestra si apriva su cortili  interni pieni di inferriate e di grondaie contro il cielo. Salirono alcune rampe di scale e percorsero altri corridoi più luminosi; il portinaio apriva e chiudeva usci di legno pesanti, qua e là passavano silenziosi inservienti. Si arrestarono infine davanti a una porticina di ferro.
– E’ qui. La prego di restare immobile. Non si faccia notare.
Aprì la porta, avanzò e fece segno a Ibarra di raggiungerlo.
Si trovavano su un terrazzino vicino al soffitto, che dominava uno stanzone vastissimo. Dalle alte finestre entrava lo sfascio del tramonto; sotto di loro, a sette otto metri, sparsi nell’immensità dello stanzone, c’erano molti uomini. Alcuni camminavano lentamente lungo le pareti, altri erano immobili o si dondolavano sulle gambe, altri ancora erano seduti su lunghe panche fissate al muro. Un tavolo traversava quasi tutta la sala e molti vi stavano appoggiati o seduti. Nell’aria stagnava un odore acido e pesante di polvere e di corpi. Si udiva un vago mormorio come di preghiere dette a fior di labbra, un ronzio monotono traversato da sospiri e dallo scalpiccio di coloro che camminavano.
– Don Vicente è quello in piedi, con la faccia nel sole… sì, quello a destra.
Un uomo alto, robusto, la fronte spaziosa, sulle labbra un sorriso sciupato, gli occhi persi nel tramonto, le mani sul petto. Un uomo che non era più un uomo.
Don Francisco si sporse un po’ dalla ringhiera del balconcino ma nel movimento urtò il braccio del portinaio. Le chiavi tintinnarono e quel suono si allargò sopra il mormorio dei malati. Alcuni alzarono il viso cercando per l’aria, occhi spenti guardarono negli angoli, su per le pareti, qualche braccio si alzò verso di loro, le bocche si aprirono in sorrisi raggrinziti. Dagli angoli, dal tavolo, dalle panche i folli cominciarono ad avvicinarsi, con movimenti strascicati e ondeggianti, borbottando più forte, qualcuno cominciò a emettere gridolini acuti, come di sorpresa o di desiderio, gli squittii si moltiplicarono, ormai quella folla avanzava lenta e compatta verso la parete del terrazzino, le facce erano sollevate, le braccia tese, un gridio incessante e disordinato riempiva tutto il camerone.
Don Vicente avanzava sospinto in mezzo agli altri, gli occhi ardenti e inconsapevoli, il sorriso sciupato sulle labbra, i capelli bianchi e spioventi. Poi Francisco lo vide arrestarsi e portare le mani alle tempie: cominciò a gridare, un urlo continuo e forte, interrotto solo per riprender fiato, che copriva il mormorio, lo scalpiccio, lo squittio dei folli. Allora tutti si voltarono verso di lui, con visi increduli, col sorriso ebete, cambiarono direzione lentamente, sbandando in larghe ruote, lo circondarono, alcuni dei più vicini tesero il braccio a colpirlo, mentre lui gridava sempre, un grido forte e uguale.
– Fermi! Fermi! Lasciatelo, maledetti!
Francisco Ibarra urlava inorridito, sporgendosi dal balconcino. Ma il portinaio lo abbrancò alla vita, lo trascinò via, chiuse la porta:
– Stia fermo, stia zitto! Bisogna stare attenti, qui, non sa dove siamo?
Si avvicinò alla corda di una campana che spenzolava dalla parete e cominciò a tirare freneticamente. Si udirono passi rapidi, voci concitate, gli inservienti accorrevano da lontani corridoi, dalle viscere dello sterminato manicomio.

VI

Il muretto era basso e Francisco lo scavalcò senza difficoltà: poi adagio calò anche il bidone. Nella scia dorata della galassia ardevano milioni di stelle, ma dentro il cortiletto del museo gli alberi incupivano la notte. Si avvicinò alla finestra e tese l’orecchio; nel fondo silenzio dell’ora percepì il pigolio delle creature prigioniere, come una covata che vaneggi nel sonno. Attraverso i vetri gli parve di scorgere un tremolio azzurrato, fuochi fatui che palpitavano debolmente.
Ibarra si staccò dalla finestra con un moto brusco, svitò il tappo del bidone, cominciò a versare la benzina sotto l’uscio di legno.

VII

Girava, girava nella sua bolla persa nell’immensità dell’azzurro, da sfrangiate lontananze giungevano incomprensibili richiami, palpiti gialli nascevano confusamente per dissolversi subito nell’ansia di quel punto delicato e angoscioso che stava sempre lì sotto e gli dava quel fremito continuo, come un grido che mai non sgorghi dagli abissi del nulla…
Ma ecco uno squarcio fosforico si apre lentissimo nella densità delle invisibili bolle, una dissolvenza fumigante che cinge tutto l’azzurro e lo scalza respingendolo in alto, mentre dalle sfrangiate turbolenze dell’orizzonte nasce un crepitio scarlatto; si ritira, poi si stende, si apre come la visione che aveva inseguito nei suoi sogni azzurri. Si diresse brancolando verso la chiazza vividissima, si protese dolorante mentre uno sciame di puntini violetti saliva dalla macchia palpitante verso la sommità dell’universo e un urlio indistinto si levava dalle altre bolle che ora, finalmente, si vedevano; si spostavano tutte insieme verso quel bagliore scarlatto per gettarvisi tra sprazzi iridescenti che ricadevano tutt’intorno. E giunse anch’egli nella rossa fornace, e fu ghermito dalle lingue cremisi; una pressione immane fece scoppiare la bolla che lo rinchiudeva, i neri brandelli ne volarono allontanandosi in tutte le direzioni, accartocciandosi e urlando, mentre nel luogo doloroso e profondo si faceva improvvisamente una luce bianchissima, accecante, che illuminava tutto e offuscava anche la vampa scarlatta. E per un istante vide rotare intorno a sé sferici colori sfilacciati e vertiginosi, udì l’urlo del tempo e i sospiri dello spazio. Poi la luce abbagliante si attenuò, la chiazza cremisi lo accolse misericordiosa, il suo tono iscurì, da rosso divenne bruno, grigiastro, poi neri coaguli salirono dall’abisso, mentre quell’ansia nel fondo si scioglieva, il dolore si sfaceva in singhiozzi dolcissimi, in un ripetuto sospiro che cresceva, cresceva, cresceva.