Macron, ex compagni e Ulivo 2.0: il nuovo Pd di Zingaretti è tutto (quindi niente)
19 Marzo 2019
Nicola Zingaretti è stato proclamato segretario del Partito Democratico da qualche ora, ma è già chiaro come l’adagio caro a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, anche in questa circostanza, l’ennesima per la politica italiana, possa essere citato per fare da sommario – forse da intero sussidiario – a quello che accadrà da qui ai prossimi mesi. Il centrosinistra si rinnova – dicono – come se fosse un primo giorno di scuola ripetuto ad infinitum, specchiandosi in quello che, prima dell’intuizione di Walter Veltroni e dei suoi sodali ideologici, si chiamava Partito Democratico della Sinistra. Quella specificazione – “della sinistra” – era stata eliminata per il tramite di un’operazione di maquillage prima e per il dilagare del centrismo renziano poi. Ora, banalmente, siamo tornati alla casella di partenza di questo stancante gioco dell’oca che è il correntismo democratico.
Il diessismo, nel senso della piattaforma idealistico – programmatica tanto cara ai diesse, rinasce con la segreteria del governatore della Regione Lazio, che riesce a mantenere all’interno della formazione politica che è chiamato a guidare – salvo nervosismi dell’ultim’ora, come quelli di Roberto Giachetti, che pare voler organizzare una cordata antizingarettiana – pure l’ala più moderata, quella di coloro che provengono dalla Margherita e che, alla fine della fiera, sono già scesi volentieri a patti. Ben contenti, per esempio, di ritrovarsi Paolo Gentiloni come presidente, non si sa quanto onorario, del partito. Inizia così quella che in gergo si chiama “traversata del deserto”, solo che le oasi in cui potersi dissetare e i passaggi ostici da dover superare a dorso di un cammello che stenta, ma che sembra recuperare qualcosa in termini di consenso, sono sempre gli stessi.
L’unico fattore di novità reale rischia di essere il cambio della sede. L’addio al Nazzareno serve a far dimenticare una stagione che ai progressisti non è piaciuta e della quale vogliono far svanire ogni memoria: quella degli accordi stipulati dalla “melma renziana” – così la chiamano in certi ambienti ultradical – con la “melma berlusconiana”. Ma il renzismo, volendo essere precisi, sembra essere stato esasperato proprio grazie al nuovo corso. C’è l’aziendalismo, per fortuna eh, del “Sì” al Tav Torino – Lione, ma c’è pure un radicalismo di massa – come abbiamo avuto modo di segnalare (link) – sulla bioetica che l’ex sindaco di Firenze aveva già inaugurato, da primo ministro e incoerentemente rispetto alla sbandierata formazione cattolica, con la legge sulle unioni civili e contorni. Esiste, insomma, un ritorno a quello che con la gestione veltroniana veniva definito dai media “maanchismo”: spinta propulsiva verso un cambiamento apparentemente totalizzante, ma anche necessità, densa di pragmatismo, di tenersi buoni tutti i “vecchi”. Come Luigi Zanda, cui dovrebbero essere affidate le casse del partito.
La trattativa è in corso, ma la sensazione è che – gattopardescamente – a essere modificata sarà soprattutto la comunicazione, quindi l’immagine esterna del Partito Democratico. Ci sarà, com’è ovvio che sia, una spruzzata di giovanilismo in direzione e in segreteria, ma sfidiamo sin da ora gli
analisti compiacenti a elencare tutti i nomi dei dirigenti della scorse cordate che saranno bocciati. La parola d’ordine sembra “rivoluzione”, ma nella realtà dei fatti sarà ed è già “pacificazione”, che è una versione davvero molto mitigata della “rottamazione”. Potrebbe esserci un solo rottamato, specie se Maurizio Martina e Maria Elena Boschi tenessero fede – come pare – alle loro intenzioni lealiste nei confronti del partito cui continuano ad appartenere, e cioè Matteo Renzi. L’unico che potrebbe davvero dover fare i bagagli, almeno in termini di incarichi ricoperti. A garantire per il fiorentino, in ogni caso, saranno i tanti eletti in assemblea nazionale: Renzi ha scelto buona parte degli attuali parlamentari e questo è più che sufficiente a garantirgli delle quote ampie negli organi assembleari.
Il progetto di Nicola Zingaretti non è una conventio ad excludendum, come si è cercato – e magari riuscito – di far credere ai tanti elettori entusiasti che si sono recati alle urne in occasione delle primarie, ma una reunificatio che tenga conto di più sensibilità possibili. La sinistra americana sta virando verso il “millenial socialism”: si sta assistendo a un mutamento di paradigma, condito da una lotta serrata tra candidati alle primarie moderati e candidati alle primarie socialisti. I secondi, con Bernie Sanders in testa, sono in vantaggio. Negli States, come accade spesso, regna la chiarezza: c’è chi sta da una parte e c’è chi sta dall’altra. Negli “affari” di casa nostra, no: vige lo stare tutti insieme purché questo serva a ottenere una maggioranza parlamentare di qualche tipo. Basti guardare al fatto che Nicola Zingaretti, nel corso della sua prima giornata da segretario, ha sia aderito al macronismo sia aperto alle alleanze territoriali con Leu – Articolo 21. Va bene la Republique En Marche! – insomma – ma non si possono neppure disdegnare gli amici mélenchonisti della France Insoumise! Una volta si chiamava Ulivo. Oggi è lo zingarettismo. In strategia politica, viene definito “superare gli steccati”. In pratica è una tragedia annunciata. Quella che gli italiani non dovrebbero aver dimenticato in così breve tempo.