Macroregione, meglio partire da Marche e Abruzzo
20 Maggio 2013
Nonostante i forti legami che uniscono l’Abruzzo e il Molise, paradossalmente il processo di fusione tra le Regioni medio Adriatiche dovrebbe scattare a nord, tra Marche e Abruzzo. Questo perché mentre nella parte settentrionale della «marca» – il territorio della Val Vibrata-Val Tronto Piceno – i presidenti Spacca e Chiodi sono impegnati da tempo in una strategia comune di integrazione, nella parte meridionale occorre fare i conti con le legittime rivendicazioni autonomiste molisane. Un gesto forte di Marche e Abruzzo, però, lascerebbe le province di Campobasso e Isernia davanti a una scelta indifferibile, conservare la loro indipendenza anche al rischio della marginalità.
Nei giorni scorsi il Presidente Frattura è intervenuto sulla proposta di fusione dichiarando che «non siamo stati eletti per chiudere il Molise ma per dare prospettive di Sviluppo al nostro territorio», una frase che la stampa interpreta come un “no” alle ipotesi avanzate in precedenza dal Presidente Chiodi. Va sottolineato che Frattura ha specificato di voler «ragionare sulla razionalizzazione di alcuni servizi e sui sistemi che si possono integrare», lasciando quindi un importante varco al dialogo.
Partire dal nord della Marca sarebbe in ogni caso utile da diversi punti di vista. Quello economico – il quadrilatero compreso tra Ascoli Piceno, Teramo, San Benedetto del Tronto e Giulianova soffre ma è sempre stata un’area vitale e produttiva dell’Adriatico. Quello storico e del rispetto delle tradizioni popolari – fin dall’antichità il territorio dei Piceni comprendeva gran parte delle Marche e dell’Abruzzo settentrionale. Infine da punto di vista amministrativo: nel 2000 i Comuni abruzzesi della Val Vibrata, i più industrializzati della provincia di Teramo, si sono uniti condividendo la gestione di molti servizi. Oggi l’area comprende oltre 80.000 abitanti. Alcuni Comuni, come Valle Castellana, hanno già proposto di aggregarsi alla provincia di Ascoli Piceno.
Si tratta allora di sfruttare i processi di interdipendenza in atto, fondamentali per il rilancio economico dell’area nel più ampio scenario della macroregione Adriatico-Ionica. Il “quadrilatero” diventerebbe la cerniera in grado di unire il porto di Ancona e quello di Pescara, favorendo sia lo sviluppo delle zone costiere sia di quelle interne in una progressiva omogeneizzazione economico-sociale del territorio. Il presidente della Regione Marche, in virtù del suo incarico di responsabile dell’Intergruppo Adriatico-Ionico, gioca una ruolo da protagonista nell’obiettivo di saldare il Corridoio Baltico-Adriatico da Ravenna ad Ancona fino a Pescara e Bari.
Le Marche sono l’unica Regione ad aver sperimentato una variazione territoriale ed amministrativa nella nostra storia repubblicana, quando nel 2006 sette comuni della Alta Valmarecchia si distaccarono passando all’Emilia Romagna, sulla base di un referendum popolare. Fu la prima volta che si diede concreta attuazione al secondo comma dell’articolo 132 della Costituzione riformato dal Titolo V. Un caso di straordinario interesse anche per come è stato gestito il processo di separazione-aggregazione, con la nomina di un commissario governativo impegnato nel garantire il passaggio di competenze tra le rispettive province (Pesaro e Urbino, Rimini).
Quella del “commissario straordinario” potrebbe essere una figura utile anche a gestire l’accorpamento tra Marche e Abruzzo, individuando nel rappresentante scelto dal Governo il soggetto capace di supplire alla fase di latenza del processo, velocizzando la risposta del sistema sia a livello locale che centrale. Bisogna anche ricordare che Regione Marche fece ricorso in Corte Costituzionale nel 2009, accusando il Governo di non aver tenuto in conto il parere della Regione. L’anno successivo la Corte confermò la scelta fatta dai valligiani.
Il passaggio dei Comuni della Valmarecchia all’Emilia Romagna lascia supporre, come sostengono alcuni, che nel caso di una fusione tra Marche e Abruzzo anche la provincia di Pesaro e Urbino potrebbe decidere di riaggregarsi alla Romagna, un’area popolata da quasi 370.000 persone. Simili fenomeni inducono a riflettere senza paraocchi sulle dinamiche di frontiera interne al nostro Paese: ormai è anacronistico ragionare in termini di province e andrebbe valorizzato sempre più il concetto di «area vasta». Sociologi ed economisti parlano di livello «meso», una dimensione intermedia tra macro e micro, in grado di evitare sia un eccessiva gerarchizzazione delle decisioni, sia la loro polverizzazione, sia il centralismo che il localismo.
E’ sulla base di queste trasformazioni del pattern regionale che le classi dirigenti del Medio Adriatico preoccupate dal fatto che la nuova Regione finisca per essere sbilanciata a nord, verso le Marche, dovrebbero tranquillizzarsi. Non è nella logica centro/periferia che va interpretato il processo di fusione tra Regioni, ma pensando a sistemi complessi, distribuiti, “clusterizzati”, con nuove autonomie messe in rete che interagiscono sulla base di un obiettivo comune.
*Deputato del Pdl e Vicepresidente Commissione Politiche Comunitaria alla Camera