Mai come stavolta il voto di protesta è sbagliato
22 Maggio 2014
Le previsioni di voto sembrano concordi nell’indicare che il movimento guidato da Beppe Grillo conoscerà alle prossime elezioni europee una notevole affermazione, confermandosi sulle percentuali assai elevate delle politiche del febbraio 2013. In sostanza, un anno e più di nullismo politico e di spocchiosa inconcludenza non sembra aver scalfito il consenso ai pentastellati. Un simile esito non si può spiegare solo con la sconfinata demagogia di cui i grillini hanno dato saggio più volte, ovvero con le capacità di imbonitore mediatico del loro leader, ma rimanda ad alcune ragioni di ordine più generale che converrà, sia pure sinteticamente, esaminare.
In primo luogo conviene prendere in esame i fattori congiunturali di medio periodo. Tra questi, anzitutto, c’è il protrarsi della crisi economica, che sollecita l’elettore a un voto di protesta. Sfiduciate le vecchie sigle politiche, il consenso tende a indirizzarsi sul nuovo (o presunto tale), che non ha ancora avuto modo di dare una prova provata della propria incapacità. Questo stato d’animo è accentuato dal crescente malcontento che si indirizza alla comunità europea, avvertita come lontana dai problemi reali che il cittadino medio deve affrontare nella vita quotidiana. Peraltro le elezioni europee sono sempre state caratterizzate da un voto in libera uscita, perché non responsabilizzato. Un tipo di elezione, cioè, in cui possono verificarsi risultati impensabili in altre competizioni, basti pensare che nel 1984 ci fu (complice l’emozione suscitata dalla improvvisa scomparsa di Berlinguer) un effimero sorpasso tra il Partito comunista e la Democrazia cristiana.
Tuttavia quest’insieme di motivi non è sufficienti a dare ragione della possibile affermazione grillina se non si prendono in considerazione altri fattori più propriamente politici. Dopo le elezioni dello scorso anno per riassorbire il voto di protesta sarebbe stata necessaria una rapida e decisa azione riformatrice, promossa concordemente dalle forze politiche non antisistema. Questa iniziativa è mancata. Il Pd di Bersani ha perso settimane preziose corteggiando i pentastellati. E solo quando si è profilata una crisi istituzionale gravissima (che si è risolta in extremis con la rielezione di Napolitano) si è fatto luogo a un governo di unità nazionale. Il clima fattivo è stato ben presto avvelenato dalla ingiusta sentenza del 1 agosto. Così il governo Letta è stato azzoppato e per tutto l’autunno scorso è continuata la fibrillazione, sempre rasentando la crisi istituzionale.
La divisione del centro destra (che un atteggiamento più ragionevole di Berlusconi avrebbe potuto evitare) ha arrecato un danno netto alla solidità del sistema. Altre gravi incertezze sono nate dalle primarie del Pd che a dicembre hanno incoronato il nuovo segretario. Alla fine, dopo alcuni altri mesi di tira e molla, si è dovuto varare un nuovo esecutivo guidato da Matteo Renzi. Quando il nuovo governo ha cominciato a lavorare con un minimo di impegno (provando a superare le resistenze corporative e i riflessi trogloditici a sinistra) ci si è ritrovati già in campagna elettorale. C’è da sperare che, una volta passate le europee, il governo torni al lavoro portando a casa alcuni degli obiettivi in cantiere (sia sul versante economico che su quello delle riforme istituzionali). Nel frattempo, però, occorre andare a votare, respingendo la tentazione dell’astensione, per arginare l’onda della demagogica grillina. Stavolta, ancora più che in passato, il voto di protesta è la peggiore delle scelte possibili.