Mancano 5 giorni alle elezioni e il Pd ancora cerca casa in Europa

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Mancano 5 giorni alle elezioni e il Pd ancora cerca casa in Europa

01 Giugno 2009

Niente di nuovo sotto il sole. Il Pd, in mancanza di armi migliori, continua a perseguire la vecchia strategia della caccia al Caimano. E la campagna elettorale si trasforma così in una frenetica sequenza di rilanci mediatici, in una demonizzazione permanente ed effettiva di “Silvio, padre di tutti i mali”, in una guerriglia senza esclusione di colpi in cui si cerca di servire qualsiasi sbobba al proprio elettorato – sesso, trame giudiziarie, moniti contro il regime prossimo venturo – pur di ottenere un piccolo vantaggio nel breve termine.

Sullo sfondo resta un partito irrisolto che, come ricorda Peppino Caldarola sul Riformista, deve ancora rispondere a tre domande capaci di definire la propria identità. La prima riguarda la collocazione che il Pd avrà nel Parlamento europeo. Come è noto gli ex democristiani presenti nella nuova creatura hanno posto il veto a un ingresso nel Partito Socialista Europeo. Per questo motivo Piero Fassino ha lavorato a lungo per tentare di creare un nuovo gruppo parlamentare meno connotato a Strasburgo, un gruppo in cui raccogliere tutte le culture progressiste e democratiche. Un accordo però, come confermato da Franceschini stesso, ancora non è stato trovato. "Stiamo ancora discutendo – dice il segretario – è un problema che riguarda diversi partiti di 27 Paesi. Sono ottimista, ma ancora non c’è un accordo". Fatto sta che a cinque giorni dal voto gli elettori ancora non sanno se il loro voto andrà a un partito legato ai socialisti europei oppure no.

Il secondo nodo irrisolto riguarda il rapporto con Antonio Di Pietro. La strana alleanza, prima suggellata in prossimità delle scorse Politiche, poi rinnegata a più riprese, è davvero archiviata oppure la convenienza politica e l’incontro sul terreno dell’antiberlusconismo la rende ancora attuale e forse inevitabile? Attualmente la seconda risposta è quella più probabile.

L’ultima domanda riguarda il modo in cui Franceschini e la tolda di comando di Via del Nazareno decideranno di combattere la propria battaglia politica contro il premier. Caldarola ricorda giustamente l’idea di un partito che avrebbe dovuto “definirsi per i suoi progetti e non contro qualcuno”. Una volontà di crescita, una prova di maturità politica finita nel dimenticatoio e ormai neppure ricordata come aspirazione ideale, come obiettivo di lungo termine.

La conseguenza di questa deriva è un timore che circola con sempre maggiore insistenza tra i moderati del partito, ad esempio nelle parole di Enrico Letta. “Il centrosinistra e il Pd stanno rischiando il paradigma Bertinotti" ovvero lo spostamento a sinistra con forte perdita di rappresentanza elettorale. E’ questo lo spettro paventato dal parlamentare del Pd ed ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Prodi, durante la presentazione del suo libro “Costruire una cattedrale”.

"Non vorrei che nel Pd – sostiene Letta – considerassimo quello che è accaduto l’anno scorso a Bertinotti come qualcosa di cui godere. Gli italiani danno un voto utile e non solo di bandiera. Attenzione, perché se il Pd e il centrosinistra sposano questa tesi è troppo difficile arrivare al 51%". Enrico Letta, insomma, considera rischioso lo schiacciamento a sinistra con l’obiettivo di "governare da tante parti, concentrandosi però a livello nazionale solo su una buona opposizione. Sono convinto che rischiamo il paradigma Bertinotti".

La questione, però, sembra più ampia, perché stavolta è proprio sulle “tante parti”, ovvero sulle amministrazioni comunali e provinciali delle zone tradizionalmente rosse, che si gioca la vera partita per la sopravvivenza dei democratici di Franceschini. Se dovesse cadere qualche frontiera ancora inespugnata allora l’effetto domino potrebbe davvero travolgere il progetto stesso del Pd con conseguenza ancora imprevedibili.