Mancano le prove, ma i pentiti bastano a condannare Contrada

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Mancano le prove, ma i pentiti bastano a condannare Contrada

09 Gennaio 2008

Con la conferma definitiva della
condanna per concorso esterno in associazione mafiosa ai danni di Bruno
Contrada, nella giurisprudenza di Cassazione ritorna il concetto nefasto della ‘convergenza del molteplice’.Dove il “molteplice” sono i soliti pentiti e la ‘convergenza’ sono le concordi dichiarazioni accusatorie. Insomma, come già per
la sentenza di primo grado contro Tortora a Napoli nel 1985 e per quella di
secondo grado a Palermo contro il giudice Corrado Carnevale di metà degli anni
’90, i pentiti si riscontrano a vicenda.

Un concetto, quello della
“convergenza del molteplice”, che periodicamente riemerge come tendenza giurisdizionale
in Cassazione. Specie quando le sentenze sono molto influenzate da fattori
politici e i riscontri veri e propri sono pochi o mancano del tutto. D’altronde
basta leggere l’arzigogolato cuore giuridico della sentenza, resa nota solo
ieri, come al solito prima alle agenzie e poi ai familiari e agli avvocati di
Contrada, da parte della sesta sezione della Suprema corte (presidente Giorgio
Lattanzi, relatore ed estensore Giacomo Paoloni), per rendersi conto degli
arrampicamenti ermeneutici dei magistrati.

“Quando si sia alla presenza di convergenti dichiarazioni
di più collaboratori
– si legge fra
l’altro – 
la presunta preordinazione delle stesse non può costituire un’inferenza
discendente in via automatica dalla constatazione della coincidenza degli
apporti narrativi. È ovvio, infatti, che si rende indispensabile la verifica
scrupolosa di ogni singola collaborazione. Ma, in caso di positiva verifica di
attendibilità, dalla convergenza delle dichiarazioni possono e debbono trarsi
tutte le inferenze ed implicazioni del caso, dovendosi in particolare dedurre
l’efficacia di riscontro reciproco delle dichiarazioni convergenti con connesso
consolidamento del quadro di accusa”.

Tradotto il tutto in italiano non
magistratese la cosa suona così: “Più che verificare i fatti raccontati dai
pentiti si deve verificare l’attendibilità intrinseca degli stessi, e una volta
verificata tale attendibilità ne discende che sono attendibili anche le
dichiarazioni contro Contrada, e se tutte convergono allora si riscontrano
l’una con l’altra”.

Inutile precisare che il ritorno
di una simile giurisprudenza all’interno della Suprema corte spaventa quasi di
più di quanto già non sia già terrificante la vicenda umana di Bruno Contrada cui
ieri, per la seconda volta, la giudice di sorveglianza del Tribunale di Santa
Maria Capua Vetere ha detto di no alla concessione degli arresti domiciliari in
attesa che la magistratura di sorveglianza di Napoli si pronunci, domani, sul
differimento della pena. Anche se poi la cosa è stata venduta su quasi tutti
gli ostili notiziari televisivi e radiofonici come una pronuncia negativa sul
merito della questione che sarà invece affrontata il 10 gennaio dal tribunale
presieduto dalla nota Angelica Di Giovanni, la magistrata che voleva fare
arrestare Lino Jannuzzi per diffamazione qualche anno fa.

Tornando alla sentenza, nelle
circa 67 pagine della motivazione, che entrano anche nel merito non fermandosi
come dovrebbero al giudizio di legittimità, si dà atto della sostanziale
“indiziarietà” del processo, costruito sui sospetti di qualche collega di
Contrada (e sulle inconfessabili manovre di qualche regista occulto restato
sullo sfondo) e si utilizzano i pentiti come riscontro a questi sospetti. Poi
il cerchio si chiude con l’affermazione apodittica che “se intrinsecamente attendibili”
gli stessi collaboratori di giustizia si riscontrano tra di loro.

Troppo facile in questa maniera
avallare un teorema accusatorio e persecutorio come quello di cui è stato
vittima il numero tre del Sisde alla vigilia del Natale del 1992.

In un’epoca in cui la lotta alla
mafia si intrecciava all’uso politico della stessa che ne facevano alcuni
partiti della sinistra nel tentativo di andare al governo attraverso la
famigerata rivoluzione giudiziaria.

Fallito il tentativo contro
Andreotti e quello contro Berlusconi, cadute nel nulla le accuse contro il
giudice Carnevale e contro l’ex ministro Mannino, rimaneva solo Contrada  come ostaggio della mentalità dell’epoca
della “primavera di Palermo”. E ora che la gente ha dimenticato le sparate
televisive di Leoluca Orlando nelle trasmissioni di Santoro dell’epoca, i
suicidi del giudice Domenico Signorino (3 dicembre 1992) e del maresciallo
Antonino Lombardo (4 marzo 1995, due settimane dopo che proprio Orlando lo
aveva indicato come “colluso” in una trasmissione di Santoro), per chi voglia
essere giustizialista a ogni costo rimane la teoria della ‘convergenza del
molteplice’.

Esattamente come nel caso Tortora.