Mano tesa tra Israele e Turchia, ma per l’Onu esiste solo Gaza
28 Giugno 2016
Nei giorni scorsi Israele e Turchia hanno ristabilito le relazioni diplomatiche dopo sei anni di rapporti congelati a seguito dei fatti accaduti sulla nave Mavi Marmara, la tristemente nota “Freedom Flotilla”. Era il 2010 quando l’imbarcazione con a bordo un gruppo di ‘pacifisti’ di Ankara diretti verso la Striscia di Gaza si rifiutò di deviare verso il porto di Ashdod, come era stato richiesto dalle autorità israeliane.
I ‘pacifisti’, alcuni armati di coltelli, bastoni e biglie di acciaio, attaccarono i commando dello stato ebraico che erano stati mandati a intercettare la nave, i quali, probabilmente sottovalutando chi c’era davvero sulla “Flotilla”, furono costretti a intervenire. Attivisti turchi vennero uccisi e soldati israeliani rimasero feriti. Lunedì, la decisione di superare questa vicenda e di restaurare le relazioni diplomatiche tra Gerusalemme e Ankara.
Parlando in conferenza stampa a Roma, il premier Netanyahu ha spiegato che obiettivo di Israele è di creare “centri di stabilità” nella instabile regione mediorientale, una politica che Gerusalemme sta già seguendo con i suoi vicini arabi, con la Grecia e Cipro, con la Russia di Putin e adesso anche con la Turchia di Erdogan.
L’accordo ha una doppia valenza, economica e geopolitica. Da un punto di vista economico, apre alla cooperazione tra i due Paesi in una questione strategica come quella dei rifornimenti energetici, con gli israeliani che saranno in grado di estendere gli approvvigionamenti al mercato turco dopo quello egiziano. La “diplomazia del gas”, secondo di esperti, è destinata anche a rafforzare le relazioni commerciali tra Gerusalemme e Ankara.
Dal punto di vista geopolitico, secondo il Washington Post, la riconciliazione ha una funzione di contenimento rispetto all’altra, e pericolosa, potenza dell’area, l’Iran sciita, che esce scornato dalla mossa israeliana. Sarà anche per questo motivo che a Gaza, nella Striscia controllata dai terroristi di Hamas, l’accordo tra Netanyahu ed Erdogan è stato subito bocciato, essendo le bande criminali al potere in quelle lande ben asservite a Teheran (ma non solo gli iraniani, nella Striscia si trova di tutto).
Ed è a questo punto che entrano in scena le Nazioni Unite. Dopo aver detto che l’accordo tra Turchia e Israele è “un segnale di speranza per la regione”, Ban Ki Moon, il segretario generale degli onusiani, vola nella tana del lupo, cioè a Gaza, per spiegare urbi et orbi che il blocco israeliano della Striscia è una “punizione collettiva”.
Non una parola, a leggere la dichiarazione del segretario uscente, su Hamas, organizzazione che ha ridotto allo stremo la popolazione palestinese, spara periodicamente missili in territorio israeliano, e plaude alla intifada dei coltelli che di recente, per non farsi mancare niente, è passata alle sparatorie nei bar israeliani.
Il segretario generale dell’Onu però se la prende come al solito con Israele. Del resto la gran parte delle risoluzioni onusiane sui diritti umani condannano puntualmente lo stato ebraico – unica democrazia dell’area – mettendolo alla stregua di stati-canaglia come l’Iran, appunto, o la Corea del Nord.
Ma a Ban Ki Moon deve essere sfuggito che, grazie al nuovo accordo, Gerusalemme si è impegnata a creare un fondo di 20 milioni di dollari per i risarcimenti alle famiglie dei ‘pacifisti’ morti sulla Marmara. La Turchia potrà anche riprendere a mandare aiuti umanitari a Gaza, sempre via porto di Ashdod.
Cos’altro avrebbe dovuto fare Netanyahu per convincere gli onusiani? Togliere il blocco intorno a Gaza? Ma dai! Diplomazia e democrazia non sono certo sinonimo di stupidità: grazie a quel blocco, Israele impedisce che passino rifornimenti militari diretti nella Striscia, armi che i terroristi usano contro il loro arcinemico. Chissà se il successore di Ban Ki Moon al Palazzo di Vetro saprà essere meno prevedibile. Smettendola di subordinare qualsiasi evento storico che accade in quell’area del mondo alla questione palestinese.