Marò, il grande fallimento della “tecnocrazia”

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Marò, il grande fallimento della “tecnocrazia”

06 Aprile 2013

La disastrosa gestione, e la ancor più vergognosa conclusione, della vicenda dei marò dimostrano ancora una volta come non solo l’amministrazione delle relazioni internazionali sia un campo nel quale il dilettantismo non produce nessun risultato ma, soprattutto, che affidare la gestione di un argomento tanto delicato ad un governo “tecnico” privo di qualsiasi legittimazione politica costituisce un errore gravissimo.

Da almeno un ventennio, in Italia questa soluzione è stata continuamente avanzata come rimedio all’incapacità della classe politica di avanzare riforme economiche ed istituzionali, le quali, si diceva, potevano essere effettuate solo da un esecutivo formato da personalità esterne al mondo dei partiti in quanto ritenute estranee dai vincoli politici. Con l’esplodere dell’antipolitica, sapientemente inculcata anche dalla stampa e dai mezzi d’informazione, il mito di un governo dei “migliori” espressione del mondo accademico ed imprenditoriale è stato presentato come la sola soluzione in grado di raddrizzare le sorti del Paese.

In realtà, un esecutivo apolitico è inevitabilmente destinato al fallimento proprio in virtù della sua struttura tecnocratica. E questo essenzialmente per tre ragioni.

La prima è che il mondo universitario, basato principalmente sulla teoria, è completamente diverso da quello reale. Negli studi accademici quando si esamina un problema se ne valuta ogni aspetto, si prendono in considerazione solo le scelte logiche e razionali ed alla fine tutti gli elementi vanno al loro posto in quella che appare la soluzione più ovvia. Nella realtà invece, soprattutto quando tratti questioni di politica internazionale, si presentano situazioni impreviste che non hai considerato, le decisioni sono spesso dettate da ragioni di politica interna compiute o a scopo elettorale  oppure per soddisfare l’opinione pubblica così da farti risalire nei sondaggi.

Ecco allora che un normale contenzioso giuridico come quello dei marò si è trasformato in una crisi grave e dagli effetti imprevedibili proprio per l’incapacità di saperne gestire i diversi aspetti. Un esecutivo politico avrebbe probabilmente ordinato alla “Enrica Lexie” di rimanere in acque internazionali, istituito una commissione d’inchiesta ed al tempo stesso avviato le procedure per un indennizzo da rilasciare ai due pescatori così da chiudere il caso in modo amichevole.

Al contrario, il governo “tecnico” di Monti si è avvitato prima in inutili trattative con Nuova Delhi quando ormai i due militari erano già nelle mani delle autorità indiane – il tutto dimostrando tra l’altro di non conoscere il complessa, e per certi versi corrotto, apparato politico e giudiziario di quel Paese – ed infine nella decisione di non farli rientrare in India, un gesto sconsiderato che ha scatenato la violenta reazione indiana che il nostro esecutivo non è stato in grado di fronteggiare.

La seconda ragione per cui un governo tecnico inevitabilmente finisce per fallire risiede poi nella diversità dei tempi esistenti tra università e politica. Quando prepari un modello accademico puoi permetterti di tracciare scenari di lungo periodo, impiegare mesi per scrivere analisi nelle quali prendi in considerazione tutti gli aspetti della questione, ma in politica invece non hai un tempo infinito e le scelte che compi devono produrre effetti nel breve periodo perché non puoi ragionare in un ottica di anni.

E davanti ad una crisi internazionale devi avere o l’abilità di risolverla oppure, se questa dovesse precipitare, essere pronto a decisioni rapide ed immediate, il tutto dimostrando di saper spiegare al Paese la ragione di quelle scelte. Non hai tempo per convocare tavole rotonde o consultare trattati. Ma vi è un altro elemento che finisce per indebolire le capacità di un governo tecnico, ovvero la presunta superiorità dei suoi componenti rispetto alla classe politica.

In situazioni diplomatiche difficili,  un esecutivo politico cercherà di aprire canali “riservati” contattando le personalità che ritiene più adatte ad aprire un negoziato sapendo tra l’altro in quali ambienti di quel determinato Paese andare a cercarle. Al contrario, uno tecnico tenderà ad accentrare ogni scelta nelle mani dei suoi componenti, i quali, essendo convinti di conoscere ogni aspetto della questione, finiranno paradossalmente per adottare le misure sbagliate.

Perché di un Paese puoi sapere tutta la sua storia ed aver studiato ogni suo aspetto politico ed economico, ma senza una conoscenza effettiva della sua realtà ogni preparazione accademica risulterà inutile.

La terza risiede infine nella mancanza di cooperazione tra i diversi membri del governo e nell’assenza di persone in grado di consigliargli nelle scelte. Mentre la norma è che sia lo staff del Ministro ad essere “tecnico” e quindi preposto a fornirgli tutte le valutazioni e le informazioni utili a fargli prendere una decisione, nel caso invece il titolare del dicastero sia egli stesso un tecnocrate ecco che si viene a creare quell’accentramento che, come detto, prima, finisce solo per causare danni.

Se poi si aggiunge la mancanza di collaborazione tra i diversi Ministri e l’incapacità a dialogare con il mondo politico dimostrata fin dall’inizio il risultato non può essere altro che un disastro. Come quello compiuto nella gestione della vicenda dei marò, un affare che forse il peggior esecutivo politico avrebbe condotto meglio di quanto fatto dagli attempati accademici bocconiani.