Marò restano in Italia, le vie della diplomazia sono infinite
11 Marzo 2013
Ora che il governo italiano si è deciso a tenere a casa i due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, non è il caso di sventolare la retorica dell’Italia grande potenza che ha strappato i suoi figli prediletti dalle grinfie della cattiva India, perché non è così che funzionano le cose in diplomazia e il ministro degli esteri Giulio Terzi ce lo ha dimostrato.
Era chiaro, fin dall’inizio della vicenda della Erica Lexie, che qualcosa non tornava nell’atteggiamento dello Stato del Kerala, roccaforte "rossa" dell’India alle prese con un difficile passaggio elettorale. Le regole del mare e il diritto internazionale dicevano che avrebbe dovuto essere il nostro Paese a giudicare i Marò accusati di aver ucciso due pescatori – Valentine Jalstine e Ajesh Binki – scambiandoli per dei pirati.
Invece è trascorso più di un anno e solo in questi giorni l’Alta corte del Kerala con grande ritardo ha iniziato a muoversi per creare un tribunale speciale che si sarebbe dovuto esprimere sulla competenza giurisdizionale relativa a "l’incidente" della Lexie. Una tempistica sospetta che molti analisti hanno letto legandola alle elezioni in Kerala, alla sfida in atto tra il Partito del Congresso e i comunisti locali.
I due Marò, insomma, usati come simbolo del nazionalismo locale, sia da una parte politica che dall’altra, considerando che le coste dello stato indiano contano milioni di pescatori evidentemente attenti all’evolversi del caso e bendisposti verso le forze politiche pronte a giudicare i Marò (gli stessi pescatori che accolsero i nostri militari a ciabattate dopo l’arresto). Da qui la flemma della giustizia locale e anche una certa discrezione di Nuova Delhi nell’intervenire in una questione così delicata e dagli effetti dirompenti sul consenso elettorale dal punto di vista mediatico.
Bisogna quindi dare atto alla Farnesina di aver aspettato l’occasione giusta per rivendicare le ragioni dell’Italia e offrire in cambio al governo indiano l’opzione dell’arbitrato internazionale. Dopo l’incidente, il nostro ministero degli esteri fece sapere che la sparatoria in cui avevano trovato la morte i due pescatori era stato una "uccisione accidentale", "un incidente sfortunato di cui tutti si rammaricano". "I nostri soldati non volevano che questo accadesse, ma sfortunatamente è successo".
La diplomazia italiana si è mossa con i piedi di piombo per non irritare i giudici del Kerala, la Suprema Corte indiana, i politicanti e la popolazione locale, puntando i piedi quando era necessario, giocandosi la carta del rientro in India dei Marò dopo le festività natalizie (come a dire, vedete? sappiamo stare ai patti…), e aspettando il momento buono per intervenire nella controversia.
"La giurisdizione è italiana", dice adesso Terzi con un Tweet", anche se l’Italia resta disponibile "a trovare soluzioni con l’India in sede internazionale". Non c’è una presa di posizione ufficiale del governo di Nuova Delhi anche se fonti del ministero degli esteri indiano fanno sapere che "non sarebbe bene reagire ora". Fonti ufficiose alle Nazioni Unite aggiungono che una feluca indiana avrebbe detto che "ogni commento specifico è prematuro, ma è chiaro che i due dovranno affrontare il processo in India".
Gli indiani sanno di non aver rispettato fino in fondo il diritto internazionale (ricordiamo che la sparatoria della Lexie avvenne in acque internazionali e che solo con una stratagemma si riuscì a fermare i nostri Marò), e prendono tempo davanti alle dichiarazioni sul principio della immunità della giurisdizione di Terzi. La posizione dell’Italia resta quella di mantenere i migliori rapporti possibili con l’India e lasciare la soluzione della controversia nelle mani di una corte internazionale di giustizia.