Maroni non sarà Bruto, ma neanche Bossi (ormai) è il Cesare d’un tempo
19 Gennaio 2012
Bobo Maroni non è Bruto per sua stessa ammissione e se questo è giura che non accoltellerà mai Umberto Bossi. Ma a leggere le beghe leghiste degli ultimi giorni appare abbastanza chiaro che il Senatur ormai non è più il Cesare di un tempo.
La fatwa lanciata e poi ritirata sotto il fuoco della base in rivolta ha certificato un dato: la guerra interna tra maroniani e cerchisti tenuta a stento sottotraccia o minimizzata davanti ai cronisti, adesso è diventata la cifra del destino del movimento. E il segnale, ormai palese, di uno scollamento tra il leader e la base. Tutti riconoscono i meriti di Bossi che è ancora il capo, ma il cambio di passo sta nel fatto che nel popolo padano monta la voglia di un rinnovamento, sia generazionale che di visione politica. Tanto che nei commenti sui blog o su Facebook per la prima volta compaiono molti attestati di gratitudine a Bossi (che tradotti significano l’anticamera del ‘ora si cambi’) seguiti dalla sollecitazione ad un nuovo corso con nuova gente sulla plancia di comando. Il punto che ad esempio Matteo Salvini rileva in un’intervista ad Affaritaliani non è tanto Bossi quanto chi “dietro Bossi sta facendo gli affari suoi”. Alias: il cerchio-magico, alias i fedelissimi del Senatur.
La linea declinata – anzi dettata – dal capo sembra essere sempre più distante dall’elettorato che prima non gli ha perdonato un certo ‘appiattimento’ su Berlusconi e adesso non gli consente la censura a Maroni che, invece, interpreta nel sentimento popolare dei leghisti, l’uomo ritenuto in grado di prendere dalle mani di Bossi il testimone del partito e aprire una nuova fase. E il paradosso è che il tentativo di emarginarlo deciso a tavolino (sabato) dallo stato maggiore di via Bellerio si è rivelato un boomerang e al tempo stesso un ottimo strumento di rivendicazione per l’ex ministro dell’Interno che, saggiamente, non ha cavalcato il divieto a partecipare a iniziative politiche, ma ha comunque saputo mettere a frutto l’onda lunga della protesta e su questa incardinare la sua strategia politica. La promessa di una pax (o tregua armata?) annunciata da entrambi serve sia a Bossi che a Maroni per non estremizzare la stagione delicata che vive il partito oltretutto nel momento in cui ha bisogno di consolidare il consenso nel suo nuovo ruolo di opposizione in Parlamento. Insomma a nessuno conviene soffiare sul fuoco, ma nessuno ormai può negare che il fuoco sia acceso e ben vivo. La manifestazione del fine settimana a Milano contro le tasse del governo Monti sarà la passerella (politica e mediatica) che servirà a tenere sotto controllo la situazione e tuttavia non basterà a disinnescare un processo che ormai appare già avviato. In un’intervista a Panorama, Maroni dice che lui non è Bruto e dunque non accoltellerà mai Bossi. Eppure tra le righe (anche se on più di tanto) fa capire che di passi indietro non ne farà, tantomeno si atterrà ai diktat (eventuali o futuri) che verranno dal Senatur se non li condividerà totalmente. La conferma di un’autonomia rivendicata e difesa.
“Con lui sono legato da una profonda amicizia” spiega l’ex ministro dell’Interno che aggiunge un passaggio che dà chiaro il senso della sua strategia: “Ormai molti vedono in me un simbolo per riportare la Lega al suo progetto originario. Credo sia davvero arrivata l’ora di aprire una stagione di congressi per rinnovare la classe dirigente. Ci vogliono tutti quarantenni, capaci di far superare le difficoltà”.
Una strategia che si sviluppa lungo due direttrici: la visione sul futuro del partito e l’azione del gruppo maroniano in Parlamento. Qui si incastra la querelle – mai risolta, solo congelata da Bossi – sulla presidenza del gruppo a Montecitorio, ancora nelle mani di Marco Reguzzoni (bossiano). E’ una partita che a fase alterne si riapre, e tuttavia in questo momento e dopo la fatwa a Maroni è riesplosa in tutto il suo vigore. Prova ne è un nuovo caso aperto in queste ore: la mozione di sfiducia personale al ministro Passera presentata dalla Lega. Il ‘giallo’ è di ieri quando il leghista Giovanni Fava (di area maroniana) intervenendo a Omnibus ha in un certo senso disconosciuto la firma alla mozione del capogruppo Reguzzoni. Quel documento è stato sottoscritto da 63 esponenti del Carroccio, compreso Bossi. Ma alla domanda sui contenuti della mozione, Fava ha detto di non conoscerli dal momento che non ha visto tantomeno aggiunto il suo nome al documento. Insomma, un’altra grana. Coi maroniani che accusano il capogruppo di non ascoltare il malumore della base nei confronti del vertice del partito e come chiosa un deputato padano il punto è che “il popolo non è bue: ferma restando la disciplina di partito, che ci vuole sempre, se le cose non vanno, non si può fare finta di non vedere”.
Altro dato significativo: ieri alla Camera diciassette deputati vicini all’ex ministro dell’Interno non erano in Aula durante il voto sulle mozioni all’ordine del giorno, compresa quella della Lega sull’immigrazione. Tutti a Varese per il primo comizio di Maroni (il primo di circa trecento inviti ricevuti e che intende onorare come ha già confermato) dopo la ‘scomunica’ di Bossi.
A Varese Maroni non farà Bruto, ma nel segno di Alberto da Giussano, preparerà le truppe per l’assalto (quello finale?) alla roccaforte del ‘cerchio-magico’.