Maroni prova a prendersi la Lega, Bossi fa outing e la Rosi non se ne va

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Maroni prova a prendersi la Lega, Bossi fa outing e la Rosi non se ne va

10 Aprile 2012

Maroni ramazza, Bossi fa outing, Rosi Mauro non si dimette. Tre foto da Bergamo. La Lega si aggrappa all’orgoglio padano ma la ‘tempesta perfetta’ è solo rinviata. I tempi del ‘celodurismo’ sembrano ormai roba da era geologica e la forza della simbologia padana fa a pugni con le immagini della realtà: dalla nobile spada di Alberto da Giussano alle ‘scope verdi’ per spazzare via chi ha sporcato la Lega; dall’ampolla con l’acqua del Po benedetta dal Sole delle Alpi al ‘pollaio’ da ripulire. 

La parabola leghista è fatta anche di molta iconografia. Immagini forti, dirompenti, slogan dissacratori coniati e subito mediatizzati, in vent’anni di bossismo che hanno identificato il partito col leader e il leader con l’idea della famiglia (politica e personale). In questa parabola sta racchiuso il prima e il dopo di una Lega in cerca della Lega. Nello smarrimento generale, tra le inchieste di tre procure e le dimissioni dei Bossi (padre e figlio) c’è bisogno di riscoprire l’identità che cementa l’appartenenza, per difendersi ed evitare che vent’anni di storia – comunque la si guardi, hanno segnato un’epoca – finiscano nel buco nero dell’antipolitica.

Così a Bergamo, dove parla Maroni a nome del triumvirato nominato dopo le dimissioni del capo. E il capo sale sul palco, ci mette la faccia, chiede scusa per i figli, grida al complotto e si commuove. Il prima e il dopo. Perché se è ancora presto per dire che a Bergamo c’è stata l’incoronazione di Maroni a segretario del movimento (si vedrà al congresso federale di giugno, dice Bossi sibillino non dando per scontato nulla), è un dato oggettivo che Bobo è il nuovo Alberto da Giussano nell’immaginario di un popolo padano ferito, attonito ma non domo. Invoca la pulizia ma ci va piano con la parola epurazione che pure nel tribolato weekend pasquale dei lumbard aveva fatto intendere più di una volta come necessità non più rinviabile.

Ieri sera la parola d’ordine era unire non dividere e con Bossi al suo fianco non poteva che essere così. Di certo, per l’ex ministro Maroni che in una recente intervista ha rivelato il piano dei cerchisti per farlo fuori solo tre mesi fa, è una rivincita, un balzo in avanti nell’Opa lanciata da mesi ai vertici del Carroccio. La ‘pulizia’ che invoca coincide con l’umore dei padani, così come quella frase ‘chi sbaglia paga ma nessuna caccia alle streghe. Però dobbiamo finirla con i complotti e i cerchi magici” racchiude la conferma del nuovo corso che propone a una platea che non fa sconti e chiede il conto di quanto accaduto. Se da Bergamo, dunque, ri-comincerà la scalata dell’ex ministro dell’Interno alla guida del partito con l’obiettivo dichiarato (nei commenti su facebook, a giornali e agenzie) di adottare la linea dura – “fuori dalle balle chi rompe le balle” -, nel dopo-Bossi non c’è soltanto lui.

 Nell’intreccio tra componenti, non va infatti sottovalutata quella dei veneti che coi lombardi ce l’hanno sempre avuta, fin dalla nascita della Liga. Dal nord-est si fa strada Luca Zaia, governatore poco avvezzo ai cerchi magici o alle truppe dei barbari sognanti, piuttosto uomo di mediazione e uomo del territorio. Le sue quotazioni salgono anche se lui smentisce velleità da futuro segretario confermando la sua vocazione di amministratore. Adesso non è il momento e c’è da capirlo, perché significherebbe bruciarsi con le proprie mani; tuttavia sono in molti tra i leghisti veneti a giurare a mezza bocca che dopo anni di ‘egemonia lombarda’ è ora di rivendicare la forza di un partito che da Treviso in giù ha messo in cassaforte una consistente scorta di consensi.

Dal Veneto poi c’è chi punta sull’avanzata di Flavio Tosi, sindaco di Verona iper-presenzialista nel talk televisivi e maroniano di ferro. Molti nel Carroccio ne apprezzano pragmatismo e dinamismo e lo vorrebbero ai piani alti di via Bellerio. In Veneto c’è poi la figura più ‘celodurista’ del Carroccio che pure qui si divide tra bossiani, maroniani e militanti della prima ora: è Giancarlo Gentilini ex sindaco di Treviso già noto come il sindaco-sceriffo al motto di ‘tolleranza zero’ contro gli immigrati. Oggi applica lo stesso slogan in casa (politica) propria: pulizia. E dopo le dimissioni del Trota (Renzo Bossi) da consigliere regionale della Lombardia, spinge per quelle di Rosi Mauro da vicepresidente del Senato.

La pasionaria-leader del sindacato padano a Porta a Porta annuncia: non mi dimetto. E rivela di aver detto il suo primo no al capo che per motivi di opportunità politica le ha chiesto un passo indietro. Si difende con piglio la Rosi, dice di non aver preso neppure un euro illegalmente, ma a stento trattiene le lacrime quando parla della sua fede leghista o respinge quelle dimissioni che i maggiorenti del partito, la base e mezzo parlamento le sollecitano. A cominciare dal Pd che oggi in Senato aprirà la questione ‘Mauro’, passando da Udc e Idv.

Un caso politico nel caso politico. Dopodomani il ‘verdetto’ del consiglio federale anche se la ‘nera’ è pronta a dare battaglia. Epurazione o no, non sarà un passaggio indolore, l’ennesimo di un partito che cerca di ritrovarsi imbracciando le ‘scope padane’ per fare le ‘pulizie pasquali’. Un fatto è certo e va riconosciuto: quelli della Lega finiti nel dossier Belsito hanno fatto un passo indietro per ragioni di opportunità politica; quelli della Margherita col caso Lusi, no.

Ma basteranno le ramazzate di Maroni&C. a evitare la ‘tempesta perfetta’? Quella che, ancor prima della resa dei conti di giugno sul dopo-Bossi, a via Bellerio temono di più.