Maurizio Sacconi ci spiega perché la legge sulle unioni civili non ha adeguata copertura economica
15 Maggio 2016
Lei che nel 2009 è stato tra quanti hanno scritto una pagina unica della storia del parlamento italiano, aprendo l’Aula di Palazzo Madama di lunedì sera (il lunedì è chiusa, ndr.), per salvare la vita di Eluana Englaro, con quali occhi guarda una legge sulle unioni-civili (in attesa della firma del Presidente della Repubblica) passata a colpi di fiducia e canguri vari?
Purtroppo questa legge è stata disegnata, sin dall’inizio, da una mano ideologizzata con lo scopo di costruire, anche attraverso di essa, la famiglia artificiale. Questa legge non ha mai cercato, realmente, la tutela dei tradizionali diritti e doveri che dovrebbero consentire ai conviventi di sostenersi reciprocamente, in termini morali e materiali. Il vero scopo è stata la genitorialità omosessuale. Ed è in relazione a questo scopo che si sono volute descrivere le unioni civili come i matrimoni.
Si è voluta, si è cercata, a tutti i costi, la più minuta sovrapposizione tra le unioni civili e i matrimoni, nella consapevolezza che la giurisprudenza europea e quella italiana avrebbero in conseguenza riconosciuto la genitorialità omosessuale e quindi le adozioni. Avere espunto da questa legge la cosiddetta ‘stepchild adoption’ è stata una cosa buona e giusta, ma non sufficiente ad evitare il progetto originario. Perché, come ho ribadito, tutta la legge trasuda ideologia, ed è stata disegnata da mani esperte in funzione della giurisprudenza.
Saranno i tribunali, diffusamente partecipi della nuova ideologia legata alla sovversione antropologica, a realizzare una giurisprudenza dominante in favore dell’adozione omosessuale. E non dimentichiamolo mai, quando parliamo di adozione omosessuale incoraggiamo, implicitamente, la pratica odiosa dell’utero in affitto. Che, notate bene, non è consentita dal nostro paese, ma sarà sempre più accettata anche da noi purché praticata altrove.
Legate alla legge ci sono le pensioni di reversibilità. Ieri Tito Boeri, il presidente dell’Inps, ha ammesso che “c’è sicuramente un aggravio di costi per il sistema, ma non dell’entità che è stata paventata”. E’ vero? C’è una sostenibilità economica? Nel reclutare una platea di nuovi coniugi qual è l’entità degli oneri di cui tutti i contribuenti dovranno farsi carico?
Boeri, però, ha anche detto, implicitamente, che non si tratta dell’entità che è stata considerata nella copertura. Perché la copertura di bilancio è stata calcolata sugli effetti di questa decisione, in termini di finanza pubblica, a dieci anni. Ed è ovvio che, dieci anni dopo le prime unioni civili, pochi di coloro che si sono uniti saranno morti. Per cui la legge di contabilità pubblica chiede di verificare i costi, e di coprirli conseguentemente, ad almeno dieci anni.
Se la norma, come in questo caso, è collegata alla morte di uno dei due coniugi, per valutarne gli effetti, bisogna arrivare a quel 2050 di cui ha parlato lo stesso presidente dell’Inps. Cioè bisogna realizzare il calcolo nel momento in cui quella platea, di “nuovi sposi” raggiungerà la mortalità media. Il presidente Boeri dice che non si tratta di miliardi ma di 125 milioni. Peccato che la copertura raggiungerà la sua punta massima nel 2025 a 22,5 milioni, quindi, in ogni caso, anche stando al suo conteggio, non c’è una copertura adeguata.
A proposito di pensioni, recentemente c’è stato l’annunciato avvio del part-time incentivato negli ultimi anni che precedono l’età di pensione. È una misura che corrisponde agli interessi dei lavoratori e degli imprenditori?
No, non credo. Anche se ora vedremo che numeri si produrranno. Quand’anche vi ricorrano alcune aziende, lo fanno a mio avviso, senza una sincera convinzione di utilizzare a part-time lavoratori anziani. Lo fanno in una logica, comunque, di loro uscita dal lavoro. Penso che noi dobbiamo quanto più motivare le aziende a trattenere lavoratori adulti, lavoratori anziani, investendo nelle loro competenze.
Ma penso anche che, nel momento in cui, per varie ragioni, questa convinzione viene meno, sia il lavoratore che l’azienda desiderano risolvere il rapporto di lavoro e l’azienda in questi casi è disponibile a concorrere agli oneri di una adeguata protezione sociale del lavoratore.
Quindi dobbiamo pensare, piuttosto, per la generazione già adulta all’atto di entrata in vigore della riforma Fornero, ad una norma transitoria che consenta di distribuire tra i datori di lavoro e lo stato gli oneri di una uscita anticipata sia in termini di garanzia dell’ultimo reddito, sia in termini di pagamento di contributi in quegli ultimi tre o quattro anni che precedono l’età di pensione.
Da un lato il ‘problema pensioni’ dall’altro la disoccupazione. Nell’area Ocse l’Italia ha le percentuali peggiori. Il tasso di occupazione è lontanissimo dalla media europea. Perché il nostro paese non riesce ad uscire da questa anomalia?
L’Italia ha sempre avuto bassi tassi di occupazione. Perché il lavoro è sempre stato iper regolato e a questa regolazione complessa si è sempre aggiunta una giurisprudenza tendenzialmente ostile all’impresa. L’impresa quindi ha vissuto il fattore lavoro con rattrappimento: cioè ha sempre teso a tradurre la propria crescita nella misura più contenuta possibile di posti di lavoro.
Noi dobbiamo rendere più fluido, invece, il rapporto tra impresa e lavoro. E questa fluidità si realizza ulteriormente deregolando il lavoro e consentendo anche agli accordi individuali, fra datore di lavoro e lavoratore, di derogare alle leggi e ai contratti nazionali.
L’Italia sembra sempre più bloccata dall’eccessivo prelievo fiscale, che aggredisce letteralmente la proprietà e il patrimonio, in particolare la casa. Il nostro è un regime di sfavore per il mattone, che ha trasformato un bene-rifugio in un bene-prigione. Oltre a detassare la prima casa, cosa bisognerebbe fare?
La casa, il mercato immobiliare, il settore delle costruzioni, rappresentano un aspetto fondamentale, in particolare, della società italiana. Perché la società italiana, anche per la propensione al radicamento delle famiglie, si è caratterizzata, più di ogni altra società al mondo, per una alta percentuale di proprietari innanzitutto della casa di abitazione, ma anche di altri immobili. Cioè la proprietà di più immobili è diffusamente popolare.
E questo perché l’altro immobile può essere il negozio, può essere il capannone, può essere l’abitazione ereditata nel paese di origine dal padre, può essere un piccolo alloggio in una località di vacanza faticosamente acquistato con il risparmio. Questo patrimonio, diffuso nelle famiglie italiane, era, a suo tempo, la ragione della propensione a risparmiare e a consumare. Ora è diventato ragione della rinuncia a consumare, della paura nel futuro.
Allo stesso modo il settore delle costruzioni si è, per larga parte, ridimensionato, proprio ora, in un momento in cui avremmo, invece, bisogno di rinnovare molta parte del nostro patrimonio immobiliare. Soprattutto quello costruito, frettolosamente, negli anni della ricostruzione.
Insomma, occorrono misure di incentivazione al rinnovo del patrimonio esistente, occorre vincolare i comuni ad una minore tassazione degli immobili, occorre un pacchetto di misure che faccia rianimare il mercato immobiliare. In questo modo si aiuterebbe anche la ripresa del credito che è fortemente ancorata alle garanzie reali. E, infine, non dimentichiamo gli investimenti infrastrutturali.
Prima l’Istat, a inizio mese, ha reso noto che la crescita in Italia rischia di rallentare nel breve periodo, poi il bollettino statistico della Banca d’Italia ci ha segnalato che a marzo il debito pubblico ha toccato il massimo storico. Considerando, inoltre, che le scorte di liquidità restano inferiori a quelle di un anno fa, non sembra proprio che il governo Renzi stia compiendo i troppo enfatizzati miracoli. Dove rileva gli errori principali?
Credo che sia un merito del governo Renzi aver ridotto la pressione fiscale sulla prima casa e sull’impresa. Ma abbiamo bisogno di ridurre ancor più coraggiosamente la pressione fiscale. E farlo strutturalmente sul lavoro anche perché la fiammata temporanea dell’azzeramento dei contributi non rivelerà un buon rapporto tra quello che ci è costata e ciò che ci ha reso.
Come abbiamo già detto, dobbiamo costringere i comuni a ridurla sulla proprietà immobiliare; dobbiamo corrispondentemente tagliare molte delle spese correnti e, insieme, attivare una spesa pubblica di investimento. Oggi, però, vedo un governo che ancora non riesce a ridurre la spesa e, di conseguenza, non riesce a procedere nel percorso di riduzione dell’imposizione fiscale, pur avendo compiuto alcuni atti importanti.
E, soprattutto, vedo un governo che non riesce ad accelerare l’esecuzione di investimenti pubblici. Tutto non ciò non può concorrere alla crescita.
Recentemente è anche emersa la polemica dei conti italiani nei paradisi fiscali dell’America centrale. Ma se l’Istat ci dice che la pressione fiscale italiana è tra le più alte al mondo, quel che viene fuori non è forse che l’Italia rappresenta un “inferno fiscale” da cui può risultare, in qualche modo, anche ragionevole fuggire? Si tende a preferire il meglio al masochismo, di solito.
Beh, noi non dobbiamo mai giustificare l’evasione. Possiamo comprendere perché si produca, ma questo non significa mai giustificarla. È ovvio che riducendo la pressione fiscale e, contemporaneamente, diffondendo i pagamenti elettronici, possiamo realizzare un patto positivo con i contribuenti per una maggiore lealtà fiscale. La lealtà fiscale deve essere peraltro il frutto anche dell’adozione di regole semplici e certe.
La cosa più odiosa per un contribuente è l’incertezza circa l’applicazione delle norme, come molto spesso è accaduto, o l’accertamento fondato su una sorta di pregiudiziale sospetto che porta a chiedere una prova diabolica. La lealtà fiscale deve essere invece, al contrario, il risultato anche di una amministrazione finanziaria amichevole con il contribuente che pure deve tassare.
Qualche anno fa, nel corso di un dibattito, lei chiedeva al ministro Ornaghi se fosse possibile “dirsi conservatori delle cose buone, per essere modernizzatori di quelle cattive che sono state prodotte dimenticando i valori fondamentali”. Posso girarla a lei questa domanda?
Sono dell’avviso che bisogna essere conservatori dei principi. Perché i principi sono stati consolidati dalla tradizione e quindi dall’esperienza insistita degli uomini. E, proprio in quanto conservatori dei principi, siamo portati ad essere modernizzatori dei modi con i quali si rendono effettivi nel mondo che cambia.
Questa coniugazione è fondamentale: solo i conservatori dei principi hanno l’ansia di riformare continuamente perché i principi vivano nella nostra comunità.
Ultimamente ha manifestato un po’ di insofferenza (definiamola così) rispetto alle prese di posizione del suo partito (NCD). Cosa la spinge a non abbandonarlo?
Prima di tutto rimango convinto della giustezza della scelta che compimmo quando evitammo all’Italia la sovrapposizione di una crisi economica e sociale con una crisi istituzionale. Che avremmo avuto, inevitabilmente, ritornando alle urne a nemmeno un anno dal voto precedente, e, con ogni probabilità, consegnando la nazione alla avventura delle forze anti-sistema. In secondo luogo, è evidente che il governo Renzi ha potuto avvalersi dell’assenza di alternative democratiche.
Ciò che, in ogni caso, mi ha fatto aderire al Nuovo Centro Destra, è stata la convinzione che si dovesse rinnovare l’offerta politica alternativa alla sinistra. E questo rinnovamento non sarebbe stato, in teoria, impedito dalla collaborazione con la stessa sinistra determinata dall’assenza di maggioranze definite con il voto che c’era stato.
Ora la legislatura sta volgendo al termine e credo che si debba accelerare il rinnovamento dell’offerta politica liberal popolare e guardo, con molta attenzione, soprattutto al voto a Roma e a Milano: per l’importanza di queste due città e per la qualità dei candidati sindaco. Marchini e Parisi possono rappresentare il futuro, anche, di un ceto politico liberal-popolare. E nel caso specifico dei temi antropologici, la mia non è stata insofferenza ma esplicito dissenso rispetto a un compromesso che non mi ha mai convinto, perché troppo viziato era l’impianto originario della legge per poter essere liberato dall’ipoteca ideologica.
Ora il problema non sta nell’appartenenza di ciascuno di noi a questo o quell’altro gruppo parlamentare. Ma dobbiamo, semplicemente, lavorare per realizzare il rinnovamento della nostra grande area di comune appartenenza: essa non potrà riproporsi negli stessi termini del trascorso ventennio. Sono cambiate troppe cose, in primo luogo nella società e nell’economia, per cui, sarebbe un errore pensare che l’offerta programmatica sia già scritta.
Da una conferma dei principi identitari, non scontata, dovremo dedurre contenuti e priorità. Bisogna che la nuova proposta politica vada ridiscussa, pazientemente e faticosamente, tra tutti coloro che pensano ad una alternativa democratica nel nome della costruzione, finalmente, di un bipolarismo mite, cioè fondato sul rispetto reciproco, nonostante la presenza di un terzo polo che si propone come movimento anti-sistema. O, anzi, anche in ragione di esso.