McCain ha ancora qualche chance di vincere?
22 Ottobre 2008
Nel corso dei tre dibattiti presidenziali, John McCain non è apparso quasi mai sicuro di sé. Il senatore repubblicano non ha mai guardato in camera e la sua voce non era del tutto sicura e calma. Obama al contrario pare abbia stregato il pubblico proprio con la sua nonchalance. Ci sono ancora delle possibilità di vittoria per McCain? Per capirlo si deve fare un passo indietro e tentare di comprendere come si sono comportati i vincitori dei precedenti dibattiti. Olte che analizzare i sondaggi da più punti di vista.
Nel 1988, mentre sugli schermi di tutto il mondo andava in onda “Miami Vice”, la questione di politica interna più scottante negli Usa era la droga. Durante il dibattito presidenziale tra George Bush senior e Michael Dukakis, la prima domanda posta da Jim Lehrer fu “che cosa attira tanti americani verso la droga di questi tempi?”. L’allora vice-presidente Bush rispose puntando il dito contro la mancanza di valori e disse che si doveva tentare di educare i giovani in maniera diversa. A questo punto Jim Lehrer diede la parola al governatore Dukakis che invece si mise a parlare di come sarebbe stato opportuno affrontare il problema dall’alto.
L’allora governatore del Massachusetts accusò il governo Reagan per il modo in cui gli Stati Uniti avevano “fatto affari” con il trafficante di cocaina panamense Manuel Noriega. La domanda successiva venne spontanea: “Lei sta per caso dicendo che il Presidente Reagan è una delle cause del problema della droga in questo paese?”. Il dibattito era appena cominciato ma Dukakis era già nei guai: accusare Reagan di una cosa simile significava esagerare, voleva dire sottostimare l’intelligenza degli elettori americani. Dukakis, poi, tenne un atteggiamento decisamente più aggressivo del suo rivale, citando il nome di Bush più volte. Bush, invece, fece più annunci e illustrò più idee del suo avversario.
Anche se il padre dell’attuale Presidente Usa vinse i due dibattiti contro Dukakis i sondaggi di allora dimostrano che i duelli verbali non cambiarono le cose più di tanto. In altre parole, non era tanto quello che si diceva durante i dibattiti a fare la differenza, ma come lo si diceva. Un altro esempio può essere il dibattito del 1992 tra Bush senior e Bill Clinton. In quell’occasione il vincitore (Clinton) non diceva cose più sensate del suo rivale, ma appariva senz’altro più a suo agio davanti alla telecamera e con la gente.
Guardate anche il dibattito tra Kennedy e Nixon nel 1960: prestate attenzione al modo in cui John Kennedy guarda in camera ed esprime le sue idee: lo sguardo fisso, la voce sicura. Durante quegli anni circolava la storia secondo cui i radioascoltatori credevano che Nixon avesse vinto il dibattito, mentre per chi guardava la tv il vincitore era stato Kennedy. Anche se questa voce non è verificabile, e se le leggende urbane spesso nascondono altre verità, questa dimostrava come, in realtà, i contenuti del discorso hanno un’importanza relativa (a meno che qualcuno non faccia una gaffe madornale).
Per esempio, durante il dibattito del 1976 (Carter Vs. Ford) il candidato repubblicano inciampò nella famosa gaffe sulla dominazione sovietica nell’Europa dell’Est e questo gli costò 3 punti percentuale. Ma quando il Presidente Carter si rifiutò di partecipare al primo dibattito presidenziale perché disse di voler affrontare Reagan faccia a faccia (senza Anderson, il candidato indipendente) la sua scelta gli costò ben 9 punti percentuale, il tutto senza dire nemmeno una parola! Gli americani interpretarono il gesto come un segnale di debolezza.
Per tornare ai giorni nostri, tra Obama e McCain il dibattito è stato serrato anche se non molto combattuto. Nel primo “debate”, sulla politica estera e la sicurezza nazionale (terreno in cui il repubblicano avrebbe dovuto prevalere), Obama ha accusato il suo rivale di essere d’accordo con il Presidente Bush nel 90% dei casi (chi conosce McCain sa benissimo che l’affermazione è smaccatamente falsa). L’accusa, però, ha funzionato perché era semplice e intuibile da chiunque: Bush è un Repubblicano, McCain è un Repubblicano, McCain è d’accordo con Bush. Anche un bambino crederebbe a una simile affermazione, soprattutto se fatta da uno che sa come dire le cose (sguardo fisso in camera, voce sicura).
McCain ha risposto a tale accusa con un’altra affermazione, molto più “politica”e meno comprensibile. Secondo il candidato Repubblicano, il senatore dell’Illinois sarebbe stato troppo “naive” nel pensare di poter dialogare con l’Iran. Per capire l’accusa ed essere d’accordo con McCain, però, si dovrebbe conoscere il significato della parola naive e sapere che l’Iran è una Repubblica Islamica. Due cose che non sono esattamente scontate. Il punto è comunque che McCain, durante tutti e tre i dibattiti presidenziali, non ha quasi mai guardato in camera e la sua voce suonava come quella di uno che ha sì studiato il giorno prima, ma non al punto da sapere le cose a memoria.
Durante il secondo dibattito, la strategia di Obama che consisteva nel mettere Bush e McCain sullo stesso piano, questa volta è stata reiterata su tutta la linea: l’11 Settembre, il deficit di bilancio, la crisi economica e la politica estera. McCain, invece, continuava ad attaccare il suo rivale con affermazioni di carattere generale: a un certo punto Obama è stato accusato di essere un “etichettatore”, poi il repubblicano ha commesso un grave errore: ha indicato Obama chiamandolo “quello là”. La frittata era fatta. Ancora: McCain ha anche rinfacciato al suo rivale di essere troppo bellicoso nei confronti del Pakistan. Obama ha avuto gioco facile rispondendo: “Questo stesso signore che cantava ‘bombardate l’Iran’ ora mi accusa di essere bellicoso?”. McCain si è irrigidito, il linguaggio del corpo era inequivocabile: come ha ricordato Paul Begala: "era come se McCain stesse dicendo oh rats… there goes my ‘risky’ argument (Oh cavolo… ecco come è andata a finire la mia accusa temeraria)".
Anche durante il terzo dibattito le cose non sono cambiate di molto: i temi scottanti erano sempre quelli, sicurezza, crisi finanziaria, sanità e politica estera. Il vero scontro, però, si giocava sempre sulle reciproche accuse: il passato di Obama e la presunta continuità tra Bush e McCain. Tanto è vero che la più riuscita battuta del repubblicano si riferiva proprio a questo: “Senatore Obama, io non sono il Presidente Bush… se avesse voluto confrontarsi con lui, avrebbe dovuto farlo quattro anni fa…”. La battuta era corretta ma anche forzata, dava l’idea di essere studiata a tavolino. C’è chi dice che il tutto si riduce ad una questione di denaro: l’entourage di Obama, secondo costoro, sarebbe molto meglio e più all’avanguardia di quello di McCain. Insomma, se le cose stanno così il repubblicano ha ancora qualche chance di diventare Presidente?
Secondo Michael Barone, uno dei più autorevoli esperti di politica americana, nonché autore dell’“Almanac of American Politics”, le possibilità non sono molte. “Credo che il comportamento di Obama durante i dibattiti abbia funzionato molto bene. Obama sembrava mantenere il sangue freddo anche quando era sotto pressione, si è mostrato chiaro e ben informato”. Secondo Barone, c’era da stare attenti a come i due avrebbero risposto in merito alla crisi finanziaria: “Nessuno dei due candidati ha in mente qualcosa di veramente specifico sulla regolamentazione finanziaria, e la situazione del 20 gennaio prossimo (tra tre mesi) potrebbe essere molto diversa da quella odierna, proprio come questa situazione è molto differente da quella di tre mesi fa”. Anche secondo Barone, Obama e McCain dovranno basarsi sulla fiducia che riescono a esprimere, proprio in merito alla questione più importante.
Per quanto riguarda le chance di vittoria, “Credo che ci sia un 80% di possibilità che Obama vinca con più o meno lo stesso margine di vantaggio che vanta oggi – dice Barone – poi, secondo me, c’è un 5% di possibilità di vittoria con un margine molto più ampio. Per quanto riguarda McCain, invece, c’è il 15% (ma forse sono un po’ troppo ottimista in questo caso) di vittoria”. Date un’occhiata alla mappa elettorale.
Le previsioni di Barone, in ogni caso, sono valide solo se stiamo a quanto ci dicono i sondaggisti americani. C’è da tenere conto di una cosa: i sondaggi potrebbero essere non del tutto attendibili, quest’anno più che mai visto che uno dei candidati è nero. La gente potrebbe non dire la verità e il campione potrebbe essere distorto da più fattori. I polls, quindi, sempre secondo Barone, vanno “maneggiati con cura”. L’analista, per esempio, si chiede anche come mai gli interpellati sembrano farsi delle remore ad ammettere che avrebbero dei problemi a votare per un candidato nero, mentre non ne hanno alcuna quando si tratta di dire che McCain è un vecchio. Ma questa è un’altra storia.
Comunque, la cosa più importante è che quasi tutti i commentatori americani (sia Democratici che Repubblicani), da Barone a Paul Begala, da William Bennet a Gloria Borger, passando per John King e David Gergen, sono d’accordo su una cosa: le risposte di Obama erano chiare e lui appariva sicuro di sé e a suo agio con il pubblico. Proprio come Kennedy, Reagan, Bush, Clinton…