McCain punta sui democratici che non amano Obama

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McCain punta sui democratici che non amano Obama

07 Giugno 2008

L’American Enterprise Institute, storico think tank che dal 1943 si occupa di promuovere la ricerca e il dibattito in merito a temi di economia, politica, benessere sociale, istruzione e immigrazione, prosegue con la propria analisi elettorale che continuerà sino ad esaminare il voto negli USA del 4 novembre. Una commissione di esperti, giornalisti ed analisti politici d’oltreoceano ha analizzato e commentato la corrente situazione statunitense, confrontandosi sui temi più rilevanti emersi dalle primarie e sulla scelta del candidato presidenziale e del suo vice in casa Democratica e Repubblicana, delineando un possibile scenario per i prossimi mesi. 

Karlyn Bowman, scienziata politica ed editorialista per l’AEI, apre i lavori approfondendo un tema a lei consueto: l’analisi del country general mood, il clima collettivo diffuso nel paese. In primo luogo, Bowman si sofferma su un’altra nomination contest svoltasi recentemente negli USA: l’importante incontro dei libertari svoltosi a Denver, nel corso del quale l’ex Rappresentante al Congresso Bob Barr è stato scelto come candidato presidenziale ufficiale per i libertarians dopo sei turni di ballottaggio. Barr, che ha sconfitto la rivale diretta Mary Ruwart (scienziata ricercatrice e candidata ufficiale del partito nel 1983), lasciò il Partito Repubblicano nel 2006 denunciando pubblicamente gli sprechi di denaro pubblico e l’intrusione eccessiva dello Stato nell’ambito individuale da parte dell’Amministrazione Bush. Circa il 20% dei Repubblicani, secondo un sondaggio Gallup, si identifica nei libertari (secondo il Cato Institute, il più importante organo dei libertarians, sono il 13% – poco più di 20 milioni); in quest’ottica, la scelta del candidato presidenziale ufficiale, da sempre accusato di “rubare voti” al Partito Repubblicano, potrà certamente influire sulle elezioni di novembre. Sempre a livello nazionale, Bowman constata come il livello di gradimento per l’Amministrazione Bush si attesta al momento intorno al 30%. È dal 2005 che Bush non riscuote l’approvazione da parte della maggioranza degli elettori; e, ancora più grave, più del 50% degli americani “disapprova fortemente” il suo operato. La percezione della situazione dell’economia statunitense è costantemente in negativo, così come la visione del conflitto in Iraq: la guerra è ancora sostanzialmente vista come un grave errore, e la surge – anche se ha migliorato la situazione in Iraq rispetto all’anno passato – non sta più muovendo verso sostanziali progressi. 

 

Riguardo al sempre avvincente testa a testa tra Clinton e Obama, la maggioranza dei Democratici – persino gli stessi sostenitori del Senatore dell’Illinois – vorrebbero che Clinton restasse in gara fino all’ultimo, certi che un conflitto diretto sia in grado di mettere maggiormente in luce il proprio candidato, in particolar modo attraverso i contraddittori informali sulla stampa e gli altri media. Obama al momento appare in vantaggio nella corsa alla presidenza, concordano gli studiosi dell’AEI; va tuttavia ricordato che le previsioni in questo periodo non sono mai state indicative rispetto ai risultati delle presidenziali (Ross Perot e John Kerry erano ad esempio indicati come possibili candidati vincenti nelle rispettive elezioni del 1992 e nel 2004). È dunque necessario guardare ai sondaggi con estrema cautela. Tra gli ostacoli che dovrà superare, Obama inoltre avrà soprattutto problemi con i cosiddetti white, blue collar democrats: quegli elettori Democratici che già Ronald Reagan si dimostrò abile a conquistare, appellandosi ai valori sociali e alla sicurezza nazionale. I white, blue collar democrats sono a disagio per la facilità con cui si permette l’aborto in America oggi, difendono il diritto a possedere armi, e provano ostilità verso un governo centrale ritenuto troppo invasivo: un elettorato ideale per McCain, che sta lavorando alacremente per persuaderli a votare Repubblicano. 

 

Riguardo ai social issues, conclude Bowman, il matrimonio omosessuale sta tornando alla ribalta tra i temi di più scottante attualità. L’atteggiamento generale negli Stati Uniti – posto che solitamente ogni generazione è un po’ più progressista di quella precedente – sembra propendere al momento per una maggior tolleranza ed accettazione della comunità LGBT (lesbian, gay, bisexual, and transgender/transsexual), anche in ambito Repubblicano. Questa tendenza sembra tuttavia invertirsi quando si guarda ad un altro argomento attualissimo, quello dell’aborto, dove i giovani di oggi si dichiarano molto più conservatori rispetto alla generazione dei baby boomers. Riguardo al possesso di armi, il consenso è diffuso: il 73% degli americani, secondo un sondaggio Gallupp, interpreta il Secondo Emendamento come la garanzia a possedere, se non a portare, armi. In quest’ambito, Obama ha agito con circospezione: la sua posizione tuttavia è spesso apparsa ambivalente, ed il Senatore si è espresso talvolta anche in modo contraddittorio – come non ha mancato di rilevare il principale consulente strategico delle due campagne del Presidente Bush Karl Rove, in occasione della National Rifle Association Convention il 16 maggio in Kentucky. 

 

Norman J. Ornstein – scienziato politico ed esperto di politiche pubbliche – prosegue il dibattito, affermando che sembra oramai inevitabile constatare come il confronto tra i candidati democratici si protrarrà fino alla prima settimana di giugno, forse oltre. Probabilmente, nota lo studioso, si tratta di una strategia consapevole affinché i sostenitori di Clinton si esprimano pienamente all’interno del complesso sistema rappresentativo elettorale statunitense, per poi rientrare più ordinatamente nelle file del partito in occasione della campagna presidenziale e delle elezioni di novembre. A Obama mancano oramai solo circa 62 delegati per raggiungere la maggioranza (2026 deputati) all’interno del Partito – maggioranza ufficiale che, certo, non gli garantisce automaticamente la candidatura ma lo avvantaggia drasticamente nella sfida. Va tuttavia ricordato, puntualizza Ornstein, che Hillary Clinton fissa invece il numero fatidico di delegati necessari a conquistare la nomination a 2210.

 

Chiunque sarà lo sfidante di McCain, un punto importante che riguarderà entrambe i candidati riguarda la disponibilità economica: un partito che sceglie presto il suo delfino si potrà dedicare da subito alla compattazione delle preferenze interna all’elettorato, ma soprattutto alla raccolta fondi – disponendo così di un considerevole vantaggio rispetto ad un partito che deve spendere energie e denaro in estenuanti lotte intestine per poi trovarsi spossato e senza liquidità alla vigilia della campagna presidenziale. Obama ha già raccolto una cifra consistente (si mormora che abbia a disposizione 250 milioni di dollari, avendone spesi meno di 10 milioni), e molto probabilmente sceglierà di non usufruire dei fondi federali. Questo andrà certamente a suo vantaggio, poiché il Senatore dell’Illinois acquisterà credibilità presso l’elettorato per non aver utilizzato i soldi dei contribuenti per finanziare la propria campagna elettorale. McCain a questo punto si trova a fronteggiare una decisione difficile: accettare gli 85 milioni di fondi federali, rischiando però di non poter disporre di altro denaro; oppure agire indipendentemente, raccogliendo da sé il necessario per la propria campagna. Si parla tuttavia in prospettiva di una spesa superiore per un ricavato inferiore (40 milioni spesi per 130 milioni guadagnati), e quindi di uno svantaggio sostanziale con il quale i Repubblicani apriranno la corsa alla Casa Bianca. 

 

Un secondo tema rilevante che inizia a profilarsi all’orizzonte è la scelta del running mate, il possibile vicepresidente. McCain avrebbe mille e più ragioni per porre Mitt Romney in cima alla lista, afferma Ornstein – prima tra tutte quei 50 milioni di dollari che Romney metterebbe a disposizione della campagna per McCain, per non parlare del proprio efficientissimo apparato di raccolta fondi, più capillare e meglio organizzato di quello di McCain. Il candidato Repubblicano sembra però provare un fastidio quasi atavico nei confronti dell’ex Governatore del Massachusetts; le voci dunque parlano anche di un possibile ticket di McCain con Michael Bloomberg, o con l’ex amministratore della HewlettPackard Carly Fiorina. 

Infine, Ornstein accenna brevemente al problema insito nelle più recenti regole introdotte nel sistema elettorale statunitense, che in occasione delle primarie ha già causato alcune difficoltà ed incomprensioni: ad esempio in Illinois non è stato permesso il voto a militari in possesso di documenti dell’esercito (che invece costituiscono valide forme di riconoscimento), oppure è stato (erratamente) ritenuto legittimo  il voto di studenti che hanno esibito la patente di guida, peraltro conseguita in altri stati. La capacità del sistema elettorale americano di gestire queste difficoltà e di auto correggersi da qui al voto del 4 novembre diventa a questo punto fondamentale. 

 

Conclude i lavori Michael Barone, analista politico e giornalista per U.S. News & World Report, e fondatore dell’Almanac of American Politics. In passato, nota lo studioso, dall’avventura delle primarie quasi sempre un candidato emergeva vittorioso, per approdare alla convention di partito con la nomination in tasca; quest’anno, le primarie in casa Democratica non sembrano esprimere tali sentimenti chiari ed incontrovertibili da parte dell’elettorato. La strategia di McCain in questo caso è di aspettare che i candidati avversari lottino tra loro, esponendo le rispettive debolezze, guardandoli fallire l’uno dopo l’altro nelle proprie strategia. Questa tattica, di per sé poco originale ed indubbiamente pericolosa (il candidato avversario potrebbe dimostrarsi talmente forte da non rendere possibile la rimonta), sta invece dando al Partito Repubblicano proficui risultati. Persino il favorito Obama sta recentemente collezionando errori politici imbarazzanti (non ci soffermeremo oltre sul suo poco felice riferimento ad Auschwitz come campo di prigionia liberato dagli americani, che ha confermato l’accusa di inesperienza politica mossagli dai Repubblicani). 

 

Infine, nota Barone, va ricordato che l’innegabile vantaggio nel numero di delegati di cui dispone Obama è riconducibile prevalentemente ai voti espressi nei caucuses, poiché se si guardasse unicamente al voto delle primarie Obama e Clinton sarebbero in sostanziale parità. Se aggiungiamo al conteggio i dati provenienti da Florida e Michigan, Hillary potrebbe addirittura essere in vantaggio. Certo, si può rimproverare ai sostenitori di Clinton di non essersi organizzati per tempo al fine di conquistare un certo margine di consenso anche nei caucuses, per trovarsi ora in vantaggio su Obama; ma dopotutto questo è il sistema, condivisibile o meno. Resta il fatto che ad un attento sguardo, in casa Democratica non emerge chiaramente una volontà popolare che converge su una persona, un candidato indiscutibile e portabandiera in grado di sfidare i Repubblicani a nome del partito. Questo potrebbe pesare, anche se è difficile stabilire ancora quanto, alle elezioni di novembre.