McCain rispolvera la Dottrina Eisenhower

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McCain rispolvera la Dottrina Eisenhower

26 Aprile 2008

Perché combattiamo? La ricetta di McCain coincide con
quella del vecchio ‘Ike’: rafforzare la pace nel mondo senza cedere ai ricatti
del “complesso militar-industriale”.

Il 17 gennaio del 1961, nel suo discorso d’addio alla
nazione, il presidente Dwight D. Eisenhower disse agli americani: “Un elemento
vitale nel mantenere la pace sono le nostre istituzioni militari…. La
congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e una enorme
industria degli armamenti è nuova nell’esperienza americana… ma dobbiamo
guardarci dalle influenze palesi e occulte esercitate dal complesso
militar-industriale. Il potenziale per lo sviluppo di poteri che oltrepassano
il proprio ruolo e le proprie prerogative esiste ed esisterà in futuro. Non
dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in
pericolo le nostre libertà o il processo democratico…”. Dopo due presidenze,
l’eroe dello Sbarco in Normandia usciva di scena. Aveva offerto al suo popolo
un lungo periodo di pace e stabilità.

Nel 2005 è scoppiato uno di quei casi destinati a
isolare McCain all’interno del movimento conservatore e che, ancora oggi,
rischiano di azzopparne la corsa elettorale. Il senatore dell’Arizona era stato
intervistato da Eugene Jarecki, il regista del documentario “Why we fight”,
premiato al Sundance Festival del 2005. L’assunto del film – un polpettone
sull’imperialismo americano – era proprio il discorso di commiato di
Eisenhower. Ebbene, McCain lasciò di stucco non pochi elettori repubblicani
dicendo che i timori del vecchio Ike sulla lobby militar-industriale si erano
“sventuratamente avverati”. Il regista, che non era uno sprovveduto, montò
abilmente questa dichiarazione subito dopo una scena in cui si vedeva il neocon
Richard Perle difendere l’operato del vicepresidente Cheney e della potente
multinazionale texana Halliburton. McCain, che non aveva fatto dei riferimenti
specifici a Cheney, fu costretto a una impietosa smentita. “It’s editorial
manipulation”, disse stizzito rivolgendosi al furbissimo Jarecki.

Halliburton a parte, il senatore dell’Arizona ha
sempre chiesto delle indagini approfondite sul ‘management militare’ della
Guerra in Iraq. Durante la prima fase dello sforzo bellico le logiche di
mercato applicate ai campi di battaglia non sempre hanno funzionato. Gli errori
di sottovalutazione del Pentagono e del ministero della Difesa sul numero di
uomini da impiegare in Iraq sono costate care a molti consiglieri del presidente
Bush. 125.000 soldati potevano anche bastare a deporre l’indebolito Saddam
Hussein ma non sono stati sufficienti per reprimere la guerriglia, il
terrorismo e le faide etnico-religiose. L’idea di vincere la guerra
semplicemente grazie all’aiuto della tecnologia era sbagliata. Difendere le
truppe sul terreno è diventato sempre più difficile, i tempi di rotazione si
sono progressivamente allungati e molti veterani sono già alla terza o alla
quarta missione. Tutto questo ha abbassato il morale della truppa, rallentato
il reclutamento, fatto balenare lo spettro della leva obbligatoria che negli
Stati Uniti non esiste più dai tempi della Guerra in Vietnam.

Nel frattempo il Pentagono si concentrava su sistemi
d’arma sempre più avanzati come l’F-22 Raptor, il caccia invisibile che è
diventato il gioiello dell’aviazione americana. Se non si può negare che gli
apparati del complesso militar-industriale oggi rappresentano il più grande
laboratorio sperimentale dell’innovazione tecnologica in America, alle stesso tempo
occorre tener presente che il costo di un solo Raptor – 350 milioni di dollari
– equivale alla spesa necessaria ad armare e tenere in attività una brigata di
tremila uomini. Frederick Kagan ha scritto su “Foreign Affairs” che applicare
il modello manageriale alle attività militari è concettualmente errato: “Nel
mondo degli affari il successo si misura col profitto che in genere viene
raggiunto migliorando l’efficienza delle proprie forze piuttosto che demolendo
quelle dell’avversario”.     

Lo slogan repubblicano alle elezioni del 1956 fu
“siamo in pieno boom economico dovunque tranne che in guerra”. Eisenhower aveva
una visione semplice e severa della Costituzione. Durante il primo mandato,
ridimensionò le funzioni dell’esecutivo, credendo che i suoi predecessori,
Roosevelt e Truman, avessero usurpato le prerogative del congresso. Ma alla
fine della sua esperienza politica avrebbe capito quanto contano le lobby che
decidono gli stanziamenti per la difesa. Nella prima stesura del suo discorso
di commiato definì il complesso militar-industriale “congressuale”. Generali e
colonnelli in pensione sono sempre stati al servizio dell’industria bellica e
mettono a disposizione dei manager non solo le loro conoscenze specifiche ma
anche le buone entrature al Pentagono. Per capire come funziona il sistema
basta vedersi una puntata di “E-Ring”, il nuovo political drama che sta
andando in onda su Rai Due. 

Eisenhower fu un presidente mite e di estrema
modestia. Veterano della Seconda Guerra mondiale, comandante in capo della
Nato, rappresentò la resistenza americana al nazismo e al comunismo.
Personificava le virtù militari del suo Paese senza essere un militarista.
Condusse la sua prima campagna elettorale prima con grande calma, poi in modo
sempre più bellicoso e alla fine vinse per un soffio contro il democratico
Stevenson. Aveva promesso di mettere fine alla Guerra in Corea e mantenne la
parola. Si conquistò le simpatie dell’elettorato democratico sudista e dei
moderati internazionalisti repubblicani della Costa Orientale. Fedele a un’idea
di “conservatorismo dinamico”, ridusse la spesa pubblica, tagliò le tasse ma
non mise in discussione il sistema del welfare roosveltiano. Fu un difensore
dei diritti civili nella migliore tradizione del suo partito. Nel 1957 inviò un
battaglione di paracadutisti della 101 divisione a Little Rock per far scortare
i bambini neri a scuola.

Anche McCain vuole risolvere la questione irachena,
conciliare capitalismo e solidarietà, non abbandonare gli immigrati a se
stessi. In fondo il senatore non è mai stato troppo distante dal pensiero
neoconservatore. Crede che l’espansione della democrazia e della libertà siano
interessi vitali per l’America. Se mai, McCain ha criticato il concetto di
“guerra preventiva” e le scelte unilaterali dell’amministrazione Bush. Un
presidente, Bush, che prima di veder crollare le Torri Gemelle si era rivolto
agli americani con un programma molto più isolazionista del suo.

L’Advance Democracy Act presentato al congresso da
McCain insieme al democratico Joe Lieberman è un altro tassello di politica
estera tracciato nel solco di Eisenhower. Per rafforzare la democrazia
pacificamente bisogna estendere i movimenti democratici nei Paesi che non lo
sono. McCain ha proposto di creare un apposito ufficio al Congresso e di
incrementare gli stanziamenti per i dissidenti. Ha chiesto di boicottare la
Russia di Putin e si è battuto per il ‘regime change’ in Birmania, appoggiando
la leader non violenta San Suu Kyi.

L’idea di “liberare i popoli prigionieri” fu una parola
d’ordine di John Foster Dulles, il potente ministro degli esteri
dell’amministrazione Eisenhower. Ike e Dulles adottarono una retorica dai toni
moraleggianti e minacciosi contro i comunisti sovietici e cinesi. Per risolvere
la crisi in Corea, il presidente disse che avrebbe usato armi atomiche tattiche
e costrinse i suoi avversari a firmare l’armistizio del 1953. Eisenhower
proseguì la politica di appoggio ai francesi in Indocina iniziata da Truman e,
nel 1956, esaltò i “combattenti ungheresi per la libertà”, anche se non
intervenne per salvarli dalla repressione sovietica.

Durante la sua seconda presidenza l’America si
ritrovò impantanata nello scacchiere mediorientale. In un primo tempo Ike aveva
assecondato il nasserismo, fino a quando, con la crisi di Suez, il presidente
decise di reagire al nazionalismo socialista egiziano. Chiese al Congresso di
fornire aiuti economici e militari a qualsiasi Paese arabo che era in pericolo
di cadere nelle mani dei comunisti. Alla fine degli anni Cinquanta gli Stati
Uniti proteggevano i governi filo-occidentali di Giordania e Arabia Saudita, la
VI flotta occupava stabilmente il Mediterraneo orientale e i Marines erano
sbarcati in Libano. Viene definita la “Dottrina Eisenhower”.  

C’è un ultimo tratto che unisce Ike a McCain.
L’autoironia. Nel 1958 Eisenhower tenne un discorso ai cadetti della Naval
Academy. Tra i giovani in divisa ad ascoltarlo c’era anche il futuro senatore
dell’Arizona. Dopo aver ricordato che “la pace è l’imperativo della nostra era,
ma la pace può essere vinta solo da una posizione di forza”, il presidente
disse: “In fin dei conti c’è un’altra qualità che voglio ricordare tra quelle
che, io credo, vi serviranno per affrontare le difficoltà e le decisioni più
importanti. Questa è un vitale senso dell’umorismo. Una delle caratteristiche
dei popoli liberi è la loro incessante ricerca di verità, di conoscenza e di
alti standard di eccellenza. La capacità di accettare i propri errori con
buonumore, di fare esperienza delle cose senza paura o risentimento o imbarazzo.
Tutto questo aggiunge vitalità alla nostra ricerca”. Miele per le orecchie di
McCain che, con il suo atteggiamento disinvolto e antidogmatico, si è
conquistato le simpatie di molti americani.

In fondo i comunisti dell’epoca di Ike, così come i
kamikaze di Al Qaeda, mancano totalmente di umorismo. Per loro c’è solo una
verità assoluta a cui obbedire: la fede nel Partito come quella nel Corano. Non
sanno cosa vuol dire “prendere sempre seriamente il proprio lavoro, mai se
stessi”, come disse Eisenhower ai cadetti dell’Accademia Navale. “Sappiamo che
uno degli punti cardinali della nostra Dichiarazione d’Indipendenza è il
diritto alla felicità. In questo cammino il sense of humour può servire a
smorzare le tensioni”. Una visione politica moderata ma ferma nei propri
principi che contraddistingue anche l’offerta politica di McCain e può condurlo
alla vittoria.