Meno male che Carlo Nordio c’è

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Meno male che Carlo Nordio c’è

08 Agosto 2015

Il dibattito sull’immunità parlamentare è come quello sulle mezze stagioni: viene riesumato con cadenza costante a ogni richiesta d’arresto di un parlamentare. Dagli uni (quando le Camere autorizzano le manette) per dire che la reclusione di un deputato o senatore è uno obbrobrio sempre e comunque e che il peggior delitto della storia è stato l’abolizione dell’autorizzazione a procedere che ha esposto i politici "innocenti a prescindere" (per dirla con Totò) alla mercé delle orde inferocite dei pubblici ministeri. Dagli altri (se il Parlamento rispedisce al mittente le richieste di custodia cautelare) per gridare allo scandalo, altrettanto "a prescindere", perché quando le inchieste riguardano "la casta" è automatico che sia il politico ad avere torto e il pm a essere investito del dogma dell’infallibilità.

 

Come spesso accade in politica, la verità non sta mai tutta da una parte. Anche il precetto ispirato dalle migliori intenzioni può prestarsi ad abusi e abiezioni, e spesso la soluzione è optare per il male minore. Non v’è dubbio infatti che, con il Paese reduce da vent’anni di dittatura, i padri costituenti non vergarono l’articolo 68 per sottrarre alla giustizia ladri e tangentisti ma per impedire, avendo attribuito all’autorità giudiziaria un’autonomia e una indipendenza così ampie da non avere eguali neppure nel mondo occidentale, che un loro impiego distorto potesse giungere ad alterare il plenum dell’assemblea rappresentativa della sovranità del popolo.

 

E non v’è parimenti dubbio che, soprattutto nei primi anni Novanta, di quella prerogativa che era del Parlamento e dunque del popolo sovrano fu fatto un uso disinvolto ai limiti della vergogna, e che passato il Rubicone della decenza fosse più agevole per la classe politica assecondare le folle inferocite abbattendo un presidio costituzionale piuttosto che difendere un principio giusto al di là dell’applicazione sbagliata che ne era stata fatta.

 

E’ probabile tuttavia che i Padri Costituenti, interrogatisi sull’assetto da dare al nostro ordinamento affinché i poteri fossero autonomi a sufficienza per garantire l’indipendenza di ciascuno di essi ma anche il primato della sovranità, valutarono che ogni medaglia ha il suo risvolto ma seppero scegliere per il minor danno. Lo ha spiegato bene in questi giorni Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia autore dell’inchiesta sul Mose, in un bell’intervento sul Messaggero.

 

Ventidue anni dopo l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, invece, piuttosto che operare con il giusto distacco una rilettura critica di una pagina drammatica della storia del nostro Paese, per paradosso viene addirittura messo in discussione quel (poco) che resta dell’articolo 68. E per giunta lo si fa dopo aver assistito al linciaggio mediatico del Senato reo di aver rispettato, una volta tanto, lo spirito e la lettera del precetto costituzionale: leggere, valutare, liberamente deliberare.

 

La verità è che ogni prerogativa porta con sé il rischio di furbizie e abusi (e il caso Azzollini non è certamente uno di questi). Ma se personaggi come Togliatti, Gullo e Calamandrei vollero proteggere la sede della rappresentanza popolare dal rischio di infondate incursioni giudiziarie, fu per tutelare i rappresentati e non i rappresentanti. Fu dunque un errore dei rappresentanti servirsi impropriamente di una diga eretta a protezione non delle loro persone (e malefatte) ma dell’istituzione parlamentare.

 

Ma fu un errore ancor più esiziale abbattere questa diga nel tentativo (vano) di rifarsi una verginità politica agli occhi dell’opinione pubblica. Ed è sconsolante che, ventidue anni dopo, a una classe politica inconsapevole e annichilita tutto questo debba essere ricordato da un pubblico ministero, protagonista peraltro di una delle più serie inchieste contro la corruzione della storia recente. Meno male che Nordio c’è.