Meno pubblico e più privato: il sistema previdenziale va ripensato così

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Meno pubblico e più privato: il sistema previdenziale va ripensato così

19 Luglio 2012

La pensione fa bene. Soprattutto alla salute, perché allunga la vita. A dirlo è uno studio dell’Ordine degli Attuari, “la mortalità dei percettori di rendita in Italia” (con analisi della mortalità dal 1980 al 2009 e stime previsionali al 2040), presentato il 17 Luglio presso la direzione generale dell’Inps.

Lo studio riguarda, per gli enti partecipanti (Inps per dipendenti privati e lavoratori autonomi; Inpdap per dipendenti pubblici; Enpals per lavoratori dello sport e spettacolo; Enpam per medici; cassa forense per avvocati), i titolari delle seguenti tipologie di pensioni: di vecchiaia, d’invalidità, ai superstiti. In sintesi, riporta l’analisi della mortalità dei pensionati (titolari di pensione di vecchiaia, di pensione ai superstiti e di pensioni d’invalidità), con riferimento alle pensioni erogate nel periodo 1980-2009 (per avere un ordine di idea dei dati analizzati, solo nell’ultimo anno di analisi, il 2009, il numero di pensioni è pari a quasi 10 milioni di unità, per oltre 142 miliardi di euro di trattamenti annui erogati). Ed effettua, inoltre, la previsione sulla mortalità degli stessi pensionati all’anno 2040 presentando gli approfondimenti sui trend delle singole categorie (di pensionati), sui differenziali di mortalità e sull’effetto che l’importo della pensione produce sulla longevità dei percettori. L’ultimo dato è davvero interessante: con l’aumento dell’importo della pensione cresce pure la probabilità di rimanere più a lungo su questa terra.

Riguardo al primo aspetto di analisi, lo studio mostra valori della speranza di vita per i pensionati superiori a quelli della popolazione generale. I dati Istat 2012 dicono che la speranza di vita alla nascita si è allungata a 79 anni per gli uomini e a 84,1 anni per le donne, un dato che fa dell’Italia uno dei primi Paesi al mondo per longevità della popolazione. Lo studio degli Attuari osserva che, nel periodo 1980/2009, c’è stato un aumento generalizzato della speranza di vita, sostanzialmente in linea con il trend della popolazione generale; e in relazione alle singole categorie di pensionati, spiega che: i dipendenti pubblici, i medici, gli avvocati e i pensionati con pensioni integrative mostrano valori significativamente più elevati della popolazione generale, pari a 2 anni o più nel 2009; i lavoratori autonomi si mantengono al di sopra dei valori della popolazione generale e al di sotto delle altre categorie di pensionati (dipendenti pubblici, medici e avvocati) seguendo negli ultimi anni un trend di avvicinamento ai dati Istat, con un differenziale ancora positivo nel 2009 per meno di 1 anno; i dipendenti privati mostrano livelli ancora inferiori rispetto alle altre categorie, ma pur sempre costantemente superiori a quelli della popolazione generale; i lavoratori dello spettacolo e sport presentano un forte differenziale tra l’analisi per teste dove i valori sono leggermente al di sopra di quelli dei dipendenti privati, con una convergenza sui valori della popolazione generale negli ultimi anni osservati.

L’ultima parte dello studio riguarda le previsioni sulla mortalità dei pensionati per il periodo 2010-2040, vale a dire l’attesa di vita (gli anni di vita rimanenti) del pensionato di 65 anni. Per i dipendenti privati maschi, prevede che la speranza di vita aumenti con incrementi intorno al 20% per le età 60-65 anni e con incrementi anche maggiori del 30% alle età più avanzate. In questo modo, nel 2040 il pensionato di 65 anni, ex dipendente privato, può attendersi di vivere ancora tra i 22 e i 23 anni.

Per i dipendenti privati femmine, invece, lo studio prevede altrettanto che la speranza di vita aumenti con incrementi inferiori al 20% per le età 60-65 anni e via via verso il 30% ad età avanzate, giungendo al 2040 su valori superiori del 3-5% rispetto alla popolazione generale. Nel 2040, in altre parole, la pensionata di 65 anni, ex dipendente privato, può attendersi di vivere ancora tra i 26 e i 27 anni.

Per i lavoratori autonomi maschi, lo studio prevede che la speranza di vita aumenti con incrementi intorno al 20% per l’età di 65 anni e con incrementi che raggiungono o superano il 30% alle età più avanzate. Nel 2040 il pensionato di 65 anni, ex lavoratore autonomo, può attendersi di vivere ancora tra i 23 e i 24 anni.

Per le lavoratrici autonome, infine, lo studio prevede che la speranza di vita aumenti con incrementi inferiori al 20% per le età 60-65 anni e con incrementi che superano abbondantemente il 30% alle età più avanzate. Nell’anno 2040, la pensionata di 65 anni, ex lavoratrice autonoma, può attendersi di vivere ancora tra i 27 e i 28 anni.

Insomma, stando allo studio degli Attuari la pensione fa davvero bene. Soprattutto alla salute perché allunga la vita. Questo dato, tuttavia, assume anche un significato preoccupante per la futura sorte di chi è oggi lavoratore e quella di chi attende di andare o è già in pensione sebbene in misura molto inferiore (irrilevante per chi già sta percependo la pensione). Infatti, la tendenza della durata in vita dei pensionati incide sull’economia e sulle misure di welfare: paradossalmente più si vive e minori sono le promesse sostenibili da parte del sistema pubblico. Riguardo alla previdenza e alle pensioni in generale, significa mantenere in equilibrio finanziario ed attuariale gli enti previdenziali che hanno in carico l’onere di gestire le pensioni. Così, in base all’evoluzione della speranza di vita vengono calcolati i requisiti per l’accesso alle pensioni e i coefficienti di trasformazione che fissano la misura delle pensioni. Insomma il futuro da pensionati si prospetta sempre più difficile, con necessità di restare a lavoro più anni e di percepire assegni di pensione più bassi.

Tutto ciò succede perché il nostro sistema previdenziale è costruito come un’azienda finanziata dai lavoratori: i pensionati (soggetti anziani) percepiscono le proprie pensioni che vengono direttamente finanziate dai contributi pagati dai lavoratori (soggetti giovani). E’ questo il cosiddetto criterio della ripartizione che lega le sorti dei lavoratori a quelle dei pensionati, dei giovani agli anziani. Con la differenza che i giovani offrono la loro parte (i contributi da lavoro) in cambio di una promessa, e cioè che quando saranno loro anziani anche i futuri giovani faranno altrettanto. Una promessa assai condizionata dal fattore ‘speranza di vita’ di cui espone il recente studio degli Attuari.

Tutto ciò non esisterebbe laddove il sistema Previdenza fosse impiantato sul criterio a capitalizzazione pura. Con tale sistema, infatti, ogni lavoratore potrebbe liberamente decidere “quanto” reddito destinare alla propria pensione e “quando” abbandonare il lavoro (pensionarsi), senza che altri vincoli, di ogni natura possano interferire sulla decisione – longevità, speranza di vita, patti intergenerazionali, saldi dei conti pubblici. Per tali motivi, lo studio degli Attuari sembra rimetterci ancora una volta dinanzi alla necessità di ripensare a un sistema di previdenza meno ‘pubblico’ e molto più ‘privato’.