Meno soldi contro il terrorismo ma guai a chi tocca le spie telefoniche

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Meno soldi contro il terrorismo ma guai a chi tocca le spie telefoniche

12 Giugno 2008

 Il Viminale è costretto a tagliare i  fondi per pagare gli straordinari ai poliziotti che si occupano di lotta al terrorismo e presto anche di quella alla mafia. Ma nessun magistrato di quanti  hanno elevato alti lai per le paventate restrizioni all’uso delle intercettazioni telefoniche stavolta ha niente da dire.

Magari anche il ministro della Giustizia, Alfano avrebbe dovuto fare così per limitare i costi del grande orecchio. Senza dare nell’occhio e senza un inutile battage politico che poi ha portato più effetti collaterali di rigetto  che altro.

Comunque se non fossimo in Italia la notizia avrebbe dell’incredibile: lo scorso 1 giugno, con una circolare amministrativa del Viminale, comunicata solo verbalmente ai dirigenti dei sindacati di polizia, è stato dato l’annuncio del taglio, a partire già dal mese in corso, del 40% degli emolumenti straordinari che vengono pagati a quegli agenti che si occupano della lotta al terrorismo. Cioè non coloro che oziano dietro le scrivanie ma proprio quelli che non conoscono orari.

Se devi pedinare un terrorista islamico, o anche un brigatista nostrano, magari sei costretto a farlo 24 al giorno per 365 giorni l’anno. Finchè non trovi i capi, i covi, le armi. Dal primo giugno si potrà farlo solo per la metà del tempo in più dell’orario del lavoro.
Poi gli agenti saranno costretti a pagarsi l’indagine di tasca propria.

Non  basta: è di prossima emanazione una analoga riservatissima circolare che verrà comunicata sempre ai sindacati e che stavolta riguarderà il personale che si occupa di contrastare la criminalità organizzata.

Insomma nel Bel Paese da una parte insorge tutta la magistratura associata, con contorno di Grillo, Di Pietro e Veltroni, se qualcuno osa mettere in dubbio che spendere soldi per intercettare le telefonate delle vallette che si concedono in cambio di un programma in Rai possa essere uno spreco di denaro pubblico. Dall’altra quando si tratta di fare passare provvedimenti che potrebbero avere un impatto devastante per la sicurezza degli italiani, quella vera non quella gonfiata ad arte su certi giornali sotto elezioni, allora nessuno dice niente.

E bastano un paio di circolari ministeriali emanate alla chetichella per combinare un disastro.

Non a caso il Coisp, il sindacato di polizia che per primo ha denunciato la cosa, parla di “poliziotti traditi e abbandonati”. Nel comunicato passato l’altro ieri alle agenzie di stampa ma da esse bellamente ignorato e da nessuno messo in relazione alla stucchevole polemica sulla utilità del sistema di intercettazioni telefoniche e ambientali, costi compresi, così come attualmente strutturato, si afferma tra l’altro che “tutte le attività informative e di lotta all’eversione, subiranno una brusca battuta di arresto su tutto il territorio nazionale, grazie a questo inspiegabile provvedimento”.

La chiosa del comunicato è ancora più dura: “francamente non riusciamo a capire, se tale esecrabile disposizione sia passata di soppiatto oppure con evidente, semplicistica noncuranza, attraverso il vaglio dei vertici del Dipartimento della P.S. e del Ministero dell’Interno senza che nessuno si sia reso conto del danno causato al sistema di sicurezza italiano.”

Così tra pochi giorni verrà emanata, perché è stata già anticipata ufficiosamente ai delegati sindacali da qualche alto papavero del Viminale, un’analoga direttiva amministrativa che prevederà un identico taglio del 40% alle spese per gli straordinari del personale che si occupa della famosa lotta alla criminalità organizzata.

Per quel che riguarda le intercettazioni invece non si ha nemmeno il coraggio di riprendere il testo del vecchio disegno di legge Mastella. Che aveva superato l’esame della Camera a pieni voti con  447  favorevoli, 7   astensioni e nessun contrario, ma poi si era arenato in commissione Giustizia a palazzo Madama.

Vale la pena riprendere i punti salienti di questo provvedimento che potrebbe anche essere una buona base per un accordo tra opposizione e maggioranza.

Il punto centrale era il “divieto la pubblicazione, anche parziale, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o delle investigazioni difensive”, anche se non più coperti  dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari. Stesso  divieto per quel che riguarda conversazioni telefoniche o “flussi di  informazioni informatiche o telematiche e i dati riguardanti il traffico telefonico”,  anche se non più coperti da segreto.

Tale norma era stata giudicata liberticida dalla Fnsi, il sindacato dei giornalisti, ma in realtà a ben vedere serviva a scongiurare le furbate di quei pm e di quei gip che nei provvedimenti di custodia cautelare mettono anche le telefonate degli ingadagati e  di persone che nulla hanno a  che vedere con l’indagine, rendendo pubbliche automaticamente tutte quelle conversazioni allegate a un provvedimento conoscibile da tutti come  il codice di procedura penale prevede che sia un mandato di custodia cautelare.

Il mandato di cattura così “farcito” risultava ovviamente molto più appetibile per finire sulle prime pagine o in televisione.

Nel ddl Mastella si precisava anche che i documenti che contengono dati relativi a  conversazioni e comunicazioni telefoniche o telematiche “acquisiti in modo illecito e quei documenti elaborati attraverso una raccolta  illecita di informazioni” non possono essere in nessun modo utilizzati, tranne che come corpo del reato. E vengono custoditi nell’archivio  riservato per le intercettazioni istituito presso ogni procura. E di essi diventa responsabile lo stesso procuratore capo.

Il capitolo più ostico del provvedimento voluto da Mastella, che potrebbe ottenere una propria nemesi personale dalla sua eventuale riesumazione, riguardava le sanzioni: reclusione da 6 mesi a 3 anni per  “chiunque rivela notizie sugli atti del procedimento coperti da segreto e ne agevola la conoscenza.”

 C’era anche una norma controversa che sembrava fatta apposta per lasciare spazio alla solita interpretazione per i “rei amici”: “se il fatto è invece  commesso per colpa o per “agevolazione colposa”, la pena è della reclusione fino a un anno.”

Difficile capire come “colposamente” si possa dare un verbale di intercettazioni a un giornalista.

 In compenso, “se a commettere il fatto è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, la pena è aumentata, rispettivamente da 1 a 5 anni e da 6 mesi a 2 anni.”

Reclusione da 1 a 3 anni, invece, per chi in modo illecito viene  a conoscenza di atti del procedimento penale coperti da segreto. E per chi, “consapevole dell’illecita formazione, acquisizione o raccolta, detiene documenti che contengono atti relativi a conversazioni  telefoniche”, la pena prevista era  la reclusione da 6 mesi a 4 anni.

Infine il capitolo più controverso, quello che riguardava la stampa. Il centro sinistra dell’epoca aveva raggiunto questo tipo di compromesso: per i giornalisti che pubblicano atti del procedimento o  intercettazioni telefoniche coperte da segreto scatta l’ammenda da 10mila a 100mila euro, in alternativa alla reclusione fino a 30 giorni, così come prevista dall’attuale articolo 684 del Codice penale.

In caso di  “illeciti per finalità giornalistiche”, inoltre, era  applicata la  sanzione amministrativa della pubblicazione, in uno o più giornali,  dell’ordinanza che accerta l’illecito a spese dei responsabili della  violazione.

Ma per i responsabili della divulgazione erano previste norme anche più severe, infatti per chiunque avesse rivelato, “attraverso qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, in  tutto o in parte il contenuto di documenti elaborati per mezzo di una  raccolta illecita di informazioni” era prevista la pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni.”

Inoltre,  “se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale”, la  reclusione era aumentata “da 1 a 5 anni.”

La legge voluta dall’ex Guardasigilli poneva anche dei limiti alla divulgazione di telefonate di persone estranee all’inchiesta con gli indagati con una curiosa clausola: “a  meno che questo non ostacoli l’accertamento dei fatti esaminati dall’indagine.”

 Molti avevano visto in questo inserimento un contentino al partito dei giudici, altrimenti troppo penalizzato dal tono generale del ddl Mastella.

Che fra l’altro prevede anche severi limiti temporali alla durata del periodo tecnico di ascolto delle telefonate: quindici giorni rinnovabili altri quindici giorni, con un tetto di tre mesi che poteva essere sforato solo con provvedimento motivato dal gip nel caso dovessero essere nel frattempo emersi, dalle precedenti intercettazioni, nuovi elementi investigativi. Quindi basta con l’”ascolta e aspetta che si parli di reati”.

 Era poi  previsto un solo centro d’ascolto per ogni distretto di corte d’appello senza più centrali operative estemporanee che rispondevano al singolo pm.

E, dulcis in fundo, un rigoroso controllo della Corte dei Conti sui costi e sugli appalti. Circostanza non senza rilievo se si pensa alle crescenti spese annue dell’ultimo quinquennio che hanno sforato il miliardo di euro complessivo.  Con appalti a cottimo che hanno arricchito i maggiori gestori italiani di telefonia mobile e fissa.