Mercato del lavoro, l’assenza liberale

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Mercato del lavoro, l’assenza liberale

22 Dicembre 2011

“Se credete di chiamarci a discutere solo per parlare di licenziamenti, levatevelo dalla testa e tra noi allora è guerra”. Chi l’ha detto a quattr’occhi e a muso duro a Monti, Grilli e Fornero? Susanna Camusso? No, sbagliato. Rispondere alla domanda equivale per molti versi a dire chi sia in condizioni migliori, per aggiudicarsi la partita in onda a gennaio sullo schermo del governo tecnico. La riforma del mercato del lavoro. Mettiamola così. Il governo è partito bene per un verso, male per l’altro. Il Pdl fino a questo momento ha giocato ancora di rimessa. Ma se l’azzecca ha buone possibilità di guadagnare credito e peso. Ho detto “se”, e sotto spiego perché. Il Pd ha un problema serio. La novità, rispetto al governo Berlusconi, è in campo sindacale. E’ Raffaele Bonanni, infatti, ad aver pronunciato con tono sdegnato la frase da cui siamo partiti. E’ Bonanni, a usare contro Fornero e Monti personalmente toni più duri della Camusso. La ministra? “Una maestrina”. Il premier? “Mio zio quello cattivo, faceva la sua stessa manovra”. Bonanni ha ragione, dal suo punto di vista. Con quello che ha rischiato negli ultimi anni affermando sempre il profilo di un sindacato ragionevole rispetto a chi sceglieva il no pregiudiziale, non si aspettava di essere omologato agli antagonisti sol perché lo prescrivono dalle colonne del Corriere della sera Giavazzi e Alesina.

Cerchiamo di motivare impressioni e giudizi.

Il governo è partito bene se la sua strategia era di far apparire la riforma del mercato del lavoro tanto più urgente e indilazionabile quanto più alti ed estesi sono i muri contrari che ritualmente vi si oppongono. Ma è partito male se il ministro Fornero – che a dire il vero ha parlato di scambio tra più flessibilità e più tutele a chi oggi ne è sprovvisto ma si è guardata bene anche solo dal citare incidentalmente il tanto famigerato articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – ha in mente come schema il progetto Boeri-voce.info sposato da metà dei gruppi parlamentari del Pd e di cui è alfiere in Parlamento l’ex segretario confederale Cgil, Nerozzi. Non è il progetto Ichino, che dopo anni di scontro ideologico per definizione non piace a un’ampia base Pd che è ex Ds e Pds senza per questo essere antagonista – da Stefano Fassina a Cesare Damiano, solida maggioranza tra federazioni e iscritti – e a un’ala di catto-sinistri come Rosy Bindi.

Com’è noto, il progetto Ichino e quello Nerozzi si basano apparentemente entrambi sull’idea del contratto unico a protezione crescente per tutti lavoratori dipendenti. In realtà quella di Ichino è una novità integrale vera, perché con l’eccezione di contratti stagionali e di sostituzione sopra i 40mila euro di reddito annuo la copertura crescente è quella relativa alle indennità di licenziamento economico (1 mese per ogni anno), licenziamento economico che in questo modo è sempre possibile attraverso un costo fisso ex ante che evita la tutela giudiziale a sentenza variabile, e che si somma poi a indennità per tre anni decrescenti a carico dell’impresa. Costo ex ante di licenziamento economico e trattamento universale di disoccupazione volto a incentivare il reimpiego sono i due pilastri della flexsicurity “alla danese”.

Il progetto Boeri-Nerozzi al contrario sopra i 30 mila euro di reddito prescrive impossibilità di contratti che non siano a tempo indeterminato secondo l’attuale normativa. Con l’unica eccezione di un contratto di inserimento al massimo triennale, comunque a tempo indeterminato, nel quale può avvenire licenziamento economico con protezione crescente di indennità secondo anzianità, al termine del quale tuttavia si resta coperti da articolo 18 attuale con tutela giudiziaria.

La Cgil è da sempre contraria al progetto Ichino, per metà o meno ancora si riconosce nell’impostazione Nerozzi che fa restare in piedi l’articolo 18 ma riconosce un canale di inserimento agevolato nelle imprese. Lanciando la riforma senza preillustrazione della sua scelta di fondo, ovviamente la Fornero avrebbe dovuto sapere che accresceva la durezza delle reazioni. Ergo, sta favorendo il progetto meno avanzato tra i due presentati in Parlamento dalla sinistra. Se la sua idea era diversa, allora ha sbagliato tono e modo. Se pensa di riparare aggiungendo che i salari vanno alzati per decreto, allora non ci siamo proprio.

E’ ovvio che per Bersani tenere in piedi le due anime del Pd – si dovrebbe dire tre, perché Fassina e tanti altri faticano a riconoscersi anche nel percorso agevolato triennale – sarà tanto più difficile quanto più davvero il governo sosterrà il progetto Ichino. In caso contrario, se la base diventa Boeri-Nerozzi, lo si annacquerà ulteriormente. Alla fine resterebbe un articolo 18 esteso a tutti senza più contratto a tempo o quasi, tenendo in piedi Cig ordinaria e straordinaria attuali ma estese a tutti. E’ quello che sperano, al vertice del Pd.

Il Pdl proprio in questi giorni esce dal ruolo di spettatore, si sta ultimando un ddl ovviamente scritto dall’ex ministro, Maurizio Sacconi. Apparentemente la scelta di Monti e Fornero – accontentare la sinistra chiudendo la porta in faccia a Cisl e Uil – rende più difficile elaborare una proposta “spiazzante”. Invece, ci vuole. Aver accettato da anni che il confronto per una riforma del mercato del lavoro fosse quello tra Ichino e Boeri significa aver abdicato a una visione moderna integralmente figlia dell’impostazione e dell’esperienza liberale. Non di quella che, nel migliore dei casi – Ichino – è al più socialdemocratica. Lo si può fare per condividere il severance cost, la somma nota ex ante alla quale ridurre la tutela per licenziamento economico. Ma non su questa scelta del tempo indeterminato per tutti come modello unico contrattuale, che non sta letteralmente né in cielo né in terra visto che in nessun Paese al mondo ci sarebbe una simile stretta a domanda e offerta di lavoro a tempo determinato.

In verità nella piccola come nel settore artigiano e commerciale, il cui peso sul totale dell’impresa ci contraddistinguono nel mondo, l’idea di adottare il tempo indeterminato come modello unico sopra i 30 mila euro significa dire di volere meno rigidità, per in realtà accrescerla. Al contrario, liberali e sindacati come Cisl e Uil potrebbero riconoscersi in un sistema a maglie più larghe, in cui la contrattazione decentrata e aziendale premia il sindacato più bravo a trasformare il tempo determinato in indeterminato, grazie a più produttività e più salario verificati insieme all’impresa. Non c’è tutto questo né nella proposta Ichino, né tanto meno in quella Boeri. E lasciamo perdere poi che cosa vorrebbe la maggioranza di Cgil insieme alla sinistra antagonista. Ma se il Pdl non si muove, la deriva va a sinistra, inutile illudersi. E la Confindustria potrebbe preferire il sistema attuale, già si è visto all’ultimo direttivo, visto che tanto oggi grandi gruppi in realtà riescono a ristrutturare comunque a differenza dei piccoli – la Fia tra i suoi residui dipendenti attuali ha chi ha sommato quasi 7 anni di casse ordinarie e straordinare in 11 anni, è tutto dire – ma la differenza è che se passa la bozza Ichino tutte devono pagare fino a tre anni di sussidio al lavoratore che non viene reimpiegato, cioè ben più di quanto il sistema Cig pesi oggi sulle casse delle imperse.

Sarebbe per l’ennesima volta un’occasione persa. E a prenderla nel sacco sarebbero i soliti, giovani donne e meridionali. Che tutti a chiacchiere dicono di voler tutelare, mentre dovrebbero far causa a chi dalle rigidità attuali e iperdecennali è iperprotetto, non alle imprese.

(Tratto da Chicago Blog)