Messico-Usa, chi vince e chi perde nella lunga Guerra della droga
27 Ottobre 2010
Ci sono due scenari che dovrebbero allarmare la Casa Bianca quando guarda al suo "cortile di casa" – il Messico – ma che non sembrano la priorità del Presidente Obama. Il primo è un Paese in crescita, forte crescita se diamo ascolto a Goldman Sachs. Un grande esportatore di petrolio che sta emergendo insieme alle "nuove potenze" come l’India, il Brasile o la Turchia; che prima della crisi segnava un +3.32% di Pil, durante è sceso a -3.09%, e in futuro tornerà a crescere al ritmo del 4.29% (secondo i dati Carnegie). Uno stato pronto a egemonizzare l’America Centrale mentre fornisce forza-lavoro a basso prezzo agli Stati Uniti. Una nazione che potrebbe dar vita a un originale crogiolo di razze e culture, ispanica, indigena, moderna e millenaria. Una democrazia che ha sposato il modello di sviluppo economico e le forme di rappresentanza politica occidentali ma ribolle come nel Chiapas del sub-comandante Marcos. E che si espande ai danni della potenza continentale, gli Usa.
I protagonisti del secondo scenario sono invece la droga, l’immigrazione clandestina, il traffico di armi. Il Messico è attualmente il principale produttore ed esportatore di stupefacenti sul suolo degli Stati Uniti. Il 90% della cocaina sniffata negli Usa arriva dalle rotte del narcotraffico messicano. La guerra della droga dichiarata da George W. Bush, la Mérida Initiative, è un conflitto combattuto dall’esercito messicano (circa 50.000 uomini schierati dal Presidente Calderon e dal suo predecessore Vicente Fox) contro i narcos che possono contare sul doppio delle truppe inquadrate da militari professionisti o riducibili a semplici thugs. Uno schema che ricalca quello afgano, solo che per adesso gli Usa se ne tengono prudentemente alla larga, ad eccezione del lavoro sporco compiuto dalla DEA e dall’FBI. E’ anche una guerra tra banditi messicani, l’un contro l’altro armati, attraversata da faide intestine come quella che di recente ha opposto i Los Zetas e il Cartello del Golfo, modificando cupole e assetti criminali. Nella guerra della droga muoiono cittadini americani, 130 negli ultimi due anni, e soprattutto messicani, 9.100 persone solo dall’inizio del 2010. Città-fantasma come Ciudad Juarez sono diventate trappole per topi come Baghdad o Kabul, se non peggio.
La maggior parte delle armi usate dai narcos arrivano dagli Stati Uniti, arricchendo i trafficanti e i venditori del Texas o degli stati confinanti. Gli Usa esportano pistole e fucili mitragliatori, il Messico droga. Quaranta miliardi di dollari di fatturato all’anno, a fronte dei quaranta milioni generati dal settore manifatturiero. Prima di finire preda del banditismo, Ciudad Juarez era un piccolo centro commerciale: ora le imprese si sono rifugiate in Cina ed è rimasto il traffico degli stupefacenti. Se gli Usa non affronteranno il problema del consumo interno di droghe, la pressione degli interessi illeciti sull’economia e la politica messicana saranno tali da spingere il Paese sul burrone del fallimento. Il problema della droga può essere affrontato in due modi: con la forza, come avrebbero fatto i comunisti, o con la libertà, come ha proposto una volta il nobel Milton Friedman: si possono mandare i consumatori nei campi di rieducazione, oppure liberalizzare il mercato com’è avvenuto con gli alcolici e il gioco d’azzardo, anch’essi vietati nelle ondate di proibizionismo della storia americana. Nessuna di queste due soluzioni sembra all’ordine del giorno.
Una potenza in fasce o uno stato fallito? La verità sta nel mezzo. Ed è qui che entra in gioco il fattore immigrazione. Sul medio periodo la comunità messicana e dei latinos presente negli stati del Texas, del Nuovo Messico, dell’Arizona e della California, diventerà maggioritaria rispetto ai bianchi o agli afroamericani. Gli immigrati messicani tendono in prevalenza a mantenere l’uso della lingua e dei propri usi e costumi quando vanno a vivere negli Usa. Molti di loro manifestano una doppia loyalty verso gli Stati Uniti e la loro Patria d’origine. Solo che il Messico è un paese straniero oltre ad essere uno stato che conserva segrete rivendicazioni territoriali sul South-West, quei territori che gli appartenevano prima delle guerre tra il 1846 e il 1848 e che oggi sono occupati dagli immigrati. Potrebbe anche darsi che nei corsi e ricorsi della storia quelle "cessioni" mai digerite si trasformino in un sentimento irredentista nella popolazione che si è stabilita negli Stati Uniti. Questo fenomeno non scatenerà una "reconquista" anche se non è da escludere qualche micro-conflitto armato, ma in ogni caso è un processo ingovernabile che minaccia seriamente la grande insalatiera Usa. La guerra fra gangs nelle metropoli americane come Los Angeles ha già assunto i tratti di una "insorgenza", secondo il Dipartimento di Stato.
Se poi il Messico tornasse a essere guidato da forze politiche alternative a quelle attuali e contrarie a rafforzare l’alleanza con gli Usa, la questione migratoria, l’influenza sulla comunità immigrata in America del Nord, la guerra della droga assumerebbero un valore aggiunto di pericolosità. Ci si lamenta dei nuovi muri, della militarizzazione scientifica del confine tra i due stati, del fatto che l’impegno militare americano e messicano non ha portato risultati concreti nella lotta al narcotraffico, ma se il Messico un domani scivolasse verso il "modello Chavez" (era meglio Pancho Villa), droga e immigrazione offrirebbero un volano spettacolare all’economia, ancora di più di quanto non avvenga adesso. La corruzione politica ed amministrativa, un’enorme liquidità monetaria, il riciclaggio di denaro sporco sono fattori capaci di ungere qualsiasi livello della società messicana. Chi si ribella muore. I boss del narcotraffico sono dunque un nemico del governo di Città del Messico oppure possono "trasformare un problema nazionale in un beneficio nazionale"? In fondo al Messico farebbe gioco avere un nord del Paese, che è poco abitato, meno ricco e produttivo del Sud, "in mano" al banditismo. Sarebbe il ventre molle della sicurezza Usa. Le gangs, la "doppia fedeltà" e il revancismo, estenderebbero l’insorgenza nel South-West. Il Messico non ha niente da perdere dalla guerra della droga. Gli Stati Uniti molto più di quanto si pensi.