Metalmeccanici: nell’accordo di ieri c’è poco di coraggioso

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Metalmeccanici: nell’accordo di ieri c’è poco di coraggioso

21 Gennaio 2008

Chiuso il contratto dei metalmeccanici si volta pagina?
Oppure proseguirà il piagnisteo della “quarta settimana” a digiuno? E’
ormai consueta la rappresentazione di un’Italia immaginaria, in cui la “percezione” di sé diventa una realtà accettata e mai discussa, ancorché
scollegata da ogni valutazione obbiettiva.

I dati, le statistiche vengono tutte lette ed interpretate in chiave
negativa. Alla stregua proprio di come gli ubriachi usano i lampioni: per
appoggiarvisi nel loro oscillante incedere e non per fare luce.

Da noi tutto
finisce nel tritacarne di un comune lamento: l’impossibilità di arrivare alla
fine del mese. Le campagne del declino si susseguono. Talvolta tocca ai
pensionati; poi viene il turno dei precari. Adesso è il momento del lavoro
dipendente che non viene adeguatamente remunerato. Così la vertenza dei
metalmeccanici ha esaltato per settimane il buon cuore dei media. Le tute blu
si sarebbero accontentate – si diceva – di un modesto aumento, ma i “padroni
delle ferriere” dalle “belle braghe bianche” non volevano tirar fuori
le “palanche”.

Nessuno si è mai
preso la briga di ricordare che nel corso del 2007, nel sistema della
Confindustria, sono stati rinnovati (con una modestissima conflittualità) 18
contratti nazionali di lavoro (si tratta ovviamente di accordi-capofila
destinati a fare da modello per decine di contratti minori).

Intanto, una
categoria importante come quella dei chimici aveva rinnovato il suo contratto
prima della scadenza (come dispone il protocollo del 1993) senza dover ricorre
a blocchi stradali e ferroviari. Tutto è bene quel che finisce bene.

Ma
l’accordo di ieri non fa compiere un passo in avanti alle relazioni
industriali. E’ solo “l’ultima raffica” di un sistema vecchio, che non
vuole farsi da parte. Il presidente di Federmeccanica Calearo ha auspicato un
intervento del Governo a favore di una maggiore flessibilità del rapporto di
lavoro, perché è consapevole che il contratto appena rinnovato continua a
muoversi lungo una logica tradizionale. Ma nessuno gli toglierà le castagne dal
fuoco. E’ sempre la solita storia. Si aspetta, ad ogni turno, il rinnovo di
questa importante categoria prima di metter mano alla riforma della struttura
della contrattazione. Poi ci si accorge che non vi è nulla di nuovo sotto il
sole.

E’ aperto, anche stavolta, un dibattito sulla struttura della
contrattazione legato a filo doppio sul “che fare ?” dei benefici fiscali
sulle retribuzioni che il Governo ha promesso una volta accertate l’esistenza e
le dimensioni di un nuovo “tesoretto”.

Si tratta di scegliere (su questo
la sinistra e il sindacato sono divisi) se il mix tra nuove regole contrattuali
e benefici fiscali deve essere rivolto al potenziamento del salario variabile,
contrattato in azienda in cambio di maggiore produttività e qualità del lavoro
oppure se deve rimanere, tuttora, il contratto nazionale al centro del sistema.
I metalmeccanici sono arrivati addirittura (con i 20 euro mensili ottenuti per
le imprese che non svolgono contrattazione decentrata) a chiedere la monetizzazione,
nel contratto nazionale, della mancata contrattazione aziendale.

Ma la notizia-clou della scorsa settimana è
venuta dall’Istat: metà delle famiglie italiane – è il risultato dell’indagine
riguardante il reddito e condizioni di vita condotta su di un campione di quasi
22.500 famiglie – vive con meno di 1.900 euro mensili. Questa cifra assume
dunque un valore mediano, in quanto l’alto 50% vive con un reddito superiore.

L’indagine – riassunta in questi termini essenziali dai titoli dei quotidiani e
dei tg – è molto più approfondita ed articolata, sia per quanto riguarda le
diverse categorie sia le realtà territoriali, con il solito profondo divario
tra Nord e Sud.

Ne esce una situazione complessa e preoccupante che richiede un
ampio esame di coscienza di tutti i protagonisti dell’economia, a partire dai
sindacati che per troppo tempo hanno “scambiato” la moderazione salariale
con la “concertazione” della spesa pubblica ed hanno effettuato una
politica retributiva che ha privilegiato i settori improduttivi (a partire
dalla pubblica amministrazione) al posto di quelli esposti alla competizione
internazionale.

E’ soltanto una percentuale importante ma minoritaria (il
14,6%) delle famiglie che dichiara di avere il problema della c.d. quarta
settimana, mentre una percentuale doppia sostiene di avere difficoltà ad
affrontare una spesa imprevista di 600 euro. Considerando, invece, l’apporto
‘figurativo’ dell’abitazione in proprietà si arriva ad un reddito mensile di
2.311 euro.

Ma è un’altra la domanda che viene in mente  a fronte di queste considerazioni. A quanto
dovrebbe ammontare un reddito considerato dignitoso ed adeguato a soddisfare le
esigenze di una normale famiglia? Quale è la scala dei consumi che viene ormai
ritenuta essenziale? Capita sempre più spesso che, nelle interviste, le
persone lamentino il costo del mutuo come se la proprietà della casa fosse
ormai una necessità tanto primaria da apparire ovvia e non anche un proficuo
investimento, meritevole di qualche sacrificio. Basti pensare che la metà delle
famiglie tedesche paga l’affitto.

Da noi pesano indubbiamente le distorsioni
del mercato degli affitti e l’assenza di una politica pubblica della casa
(l’aliquota ex gescal è stata requisita da quella pensionistica). Ma la
diffusione della proprietà immobiliare un senso e una considerazione  li deve pur avere. Insomma, la
rappresentazione di un’Italia sull’orlo di una crisi di nervi non trova
conferma in una  realtà connotata da un
diffuso patrimonio immobiliare delle famiglie, dai dati della motorizzazione
privata, dal perdurante ammontare dei risparmi (anche se negli ultimi anni
hanno subito sicuramente un’erosione).

Infine, quando si affrontano tali
problemi, quando le tv vanno a scavare nelle buste paga o nei cedolini delle
pensioni sembra sempre di avere a che fare con singole persone o al massimo con
famiglie monoreddito.  Mentre la
differenza viene fatta, in larga misura, dal numero di persone che lavorano in
uno stesso nucleo.

Viene da chiedersi, allora, perché non vengono sufficientemente
valutati altri dati ineccepibili: il tasso di occupazione non è mai stato così
alto e il tasso di disoccupazione così basso. Una situazione siffatta del
mercato del lavoro determina sicuramente degli effetti anche sul reddito delle
famiglie. La risposta al problema del reddito insufficiente viene
necessariamente anche dall’incremento dell’occupazione, in particolare di
quella femminile.