Metti una passeggiata d’Agosto a Saigon tra parchi e baracche per Pho

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Metti una passeggiata d’Agosto a Saigon tra parchi e baracche per Pho

27 Agosto 2011

Se Hanoi, la capitale politica del Vietnam, è la città della bellezza, dei laghi, più austera e più piovosa, Saigon per i più (Ho Chi Minh City per i pochi) è la città dell’economia, l’antico centro dell’Indocina francese, poi capitale di quello che i comunisti vietnamiti definiscono ancora oggi – non senza un po’ di infantilismo demagogico –  lo Stato fantoccio del Vietnam del Sud sostenuto dagli Stati Uniti. Senza entrare nel dibattito storiografico, si dirà che Saigon è la capitale del biz vietnamita, dei grattacieli, di maggiori libertà economiche e di più sensibili differenze sociali (fenomeni come il rarissimo accattonaggio e l’altrettanto rara prostituzione sono concentrati proprio qui). 

Grandi i parchi, più ricca la gente. Se Hanoi aveva poco più di un milione e settecento mila motorini nel 2008, Saigon ne aveva nello stesso anno più del doppio, una cifra vicina ai tre milioni e ottocento mila motorini immatricolati. Perché tutto questa attenzione al numero dei motorini, si dirà? Beh, perché non si puo’ intendere il vietnamita, le sue abitudini, le sue aspirazioni, se non si parte dal suo mezzo, quello sul quale o accanto al quale, passa tanta parte della sua giornata. L’auto è un sogno per pochi, sempre più numerosi ma ancora minoranza non sensibile. Il motorino è a portata di tutti in Vietnam. E’ la Lambretta o la Vespa degli anni ’50 e ’60 in Italia. Si dica pure che, a Saigon come ad Hanoi, il design Piaggio la fa da padrone: vespe rosse e gialle dappertutto cosi’ come le sue imitazioni (una casa di produzione taiwanese, la SYM, produce un modello di scooter gettonatissimo che assomiglia terribilmente alla Vespa, dal nome germano: Attila). 

In Asia non si prescinde dalla contrattazione. Mai. Regola vera anche in Vietnam. Se si sbarca a Saigon, magari dopo un viaggio di 24 ore in uno sleeping bus, ovvero in un autobus i cui sedili sono delle chaiselongue di plastica – il tuo umore non ti permetterà di accettare tentativi di fregature che qualsiasi tassista al capolinea del bus cercherà di importi per portarti al tuo albergo. Devi contrattare. Se la contrattazione finisce male (i vietnamiti sembrano meno disponibili a discaccarsi dal prezzo di partenza di quanto non lo siano i cinesi, maestri del mercanteggiamento), si è necessariamente votati al mercato, e al motorino, al moto taxi. Costa meno, e in una città dove ci sono quasi quattro milioni di mezzi a due ruote, si fa prima. 

Morire di stanchezza dopo aver fatto un check-in nell’albergo – quello trovato nella via puzzona ma "autentica", la puzza lo è sempre –  lasciare il vicolo per qualche ora, comprarsi un paio di lattine di 333 (la birra locale) e andarsela a gustare nel parco in mezzo alla via, dove famiglie in preda a risate compulsive per il solo fatto di stare insieme giocano a "torello" con i loro pargoletti alle prime corse dietro alla palla; oppure ad ammirare dritti e rovesci di giovani che giocano seriamente a padmington; non ultimo estasiarsi per qualche secondo – prima che la monotonia dello spettacolo abbia la meglio – ad ammirare le prodezze balistiche di giovani ragazzo che si lanciano una strana creautura colorata che al contatto con la pianta del piede dei giocatori fa il rumore della carta pesta. Finite le birre, non ti resta che andare a cercare qualche baracchino per la strada (sempre che non piova perchè hai avuto la buona idea di andare in Asia nella stagione dei monsoni), e di farsi servire con i propri rudimenti di vietnamita –  traslitterata in alfabeto latino dal gesuita francese Alessandre de Rhodes nel ‘600 –  una bella porzione di Pho, la brodaglia più buona del vietnam. Poi diritti a letto, visto che sullo sleeping bus non si è poi tanto dormito bene.

Come in ogni città, il bello della sua scoperta è entrare nel grande vorticoso movimento delle sue genti. Poche attrazioni, e poi chissenefrega delle attrazioni museali, artistiche, architettoniche. Un solo posto pero’ vale la pena di andare a vedere a Saigon: il Museo della Guerra. Solo per uscirne disgustato. Assediato da turisti, in maggioranza anglosassone (ma ci trovi anche un bel po’ di francesi e di europei in genere), è luogo di tragedia e di pornografia. Si parte da foto di guerra di vita tra le linee, a didascalie piene di rancore e spirito di ricostruzione storica ‘equilibrato’. In un certo senso, non stupisce affatto che sia cosi’: in fondo i vietnamiti del nord, del sud, e in generale tutto la nazione, hanno pagato un alto prezzo morale, fisico, politico nel conflitto. La guerra non è una passeggiata, ça va sans dire. Lacera. Nel fim documentario The Fog of War, il segreatario alla difesa Usa, Robert McNamara, ammette che gli Stati Uniti non colsero che per i vietnamiti comunisti del nord la presenza militare americana in Vietnam altro non fu che il secondo atto della guerra di indipendenza iniziata con la cacciata dei francesi. Oggi c’è il partito unico, zero pluralismo politico, ma il regime sembra ancora dotato di qualche legittimità, proprio a causa della guerra e poi delle libertà economiche concesse, su modello cinese. 

Il pian terreno del Museo della Guerra scorre lento, tra foto del sostegno sessantottino in Europa tutta (Ovest e Est) e negli Usa contro la guerra in Vietnam. Saliti al primo piano si ha ha già la sensazione di trovarsi nel museo degli orrori, novello inferno dantesco in terra asiatica. Si parte con foto di pezzi di corpo vietnamita in terra sovrastati da soldati americani sorridenti, passando per foto di corpi storpiati dalla "crudeltà genetica" delle armi chimiche statunitensi, l’agent orange, fino al cubo in plexiglass riempito di salamoia ove galleggia un feto bicefalo che ti fissa. Non puoi far altro che uscire di corsa, disgustato dall’indecenza della verità e da chi ne fa uso per legittimarsi politicamente. 

Accaldato, tra i cingolati e gli elicotteri che ti conducono fuori dal Museo degli orrori, non si puo’ fare a meno di vagare, il più lontano possibile dal tetro contenitore di memorie selettive, imbatterti nella cittadella universitaria e cercare un nuovo moto taxi. La mattinata è stata lunga, calda. Il feto ti fissa ancora e non lascia la mente. Serve una doccia.    

Fine della seconda puntata. Continua…