Milton Friedman, quello che resta
21 Novembre 2006
Che peccato. Che peccato che Milton Friedman sia scomparso, proprio ora, proprio quando il dibattito sulla globalizzazione si sta facendo sempre più serrato, mentre alberga il rischio che “mettere-la-museruola-al-mercato” torni ad essere la parola d’ordine, dopo essere ricomparsa nel vocabolario di certi bramini dell’anticapitalismo di ritorno. Era consapevole del pericolo che i governi, ispirati dai fantasmi ideologici, esternassero la loro creatività accatastando nuove regole, confezionando fantasiose restrizioni alla libera azione individuale e si era spinto fino a guardare ad Hong Kong come modello economico che si augurava gli Stati Uniti prendessero ad esempio. D’altronde, per sua stessa ammissione, “la battaglia è stata vinta solo a metà.” Si riferiva al fatto che l’opinione pubblica, soprattutto con l’elezione di Reagan e dopo la frattura storica consumatasi a Berlino nel 1989, fosse maturata, che avesse cominciato a ingoiare pillole di liberismo, aprendo gli occhi di fronte alla realtà amara che si affacciava al di là di quel muro. Tuttavia, in modo non troppo sorprendente, è stata la politica a invertire la rotta; i vessilliferi dell’ “Occidente libero,” sollevati dal gravoso obbligo di accarezzare l’economia di mercato di fronte all’angosciante presenza del socialismo reale, hanno tradito, consentendo che lo stato si intrufolasse sempre più nella vita di ogni individuo, lasciando al privato solo pochi, marginali anfratti in cui dileguarsi.
Era da questo bisogno di tratteggiare il perimetro dell’autonomia individuale di fronte all’invadenza statale, da questa esigenza avvertita in modo irresistibile da ogni liberale che voglia dirsi tale, che scaturiva la preferenza di Friedman per il libero mercato. Non che egli fosse un “anarchico.” Lo stato, secondo il decano di Chicago, doveva fare poco e fare bene nell’ambito delle sue aree di competenza: esso serviva sostanzialmente a tracciare i confini in cui i singoli si sarebbero mossi ed a rimediare ad alcune “imperfezioni” del mercato. Al contempo, però, Friedman ha sempre invitato a diffidare del governo; ha avversato risolutamente il protezionismo; è stato un oppositore acerrimo dello stato assistenziale, di cui ha criticato ripetutamente due pilastri: la sanità socializzata e l’istruzione pubblica. “Secondo noi non esiste nessuna ragione per socializzare la medicina. Al contrario, il potere pubblico ha un ruolo già troppo grande nel campo delle cure mediche. Ogni ulteriore accrescimento di questo ruolo sarebbe sostanzialmente contrario agli interessi dei pazienti, dei medici e del personale sanitario”: erano i primi anni Ottanta quando Friedman e sua moglie, Rose, scrissero questo in Liberi di scegliere. Si trattava di un’analisi lungimirante, soprattutto alla luce del confronto, oggi vivace negli Stati Uniti, sulla possibilità di una privatizzazione della social security. L’idea ispiratrice è che dovrebbero essere gli individui e le famiglie – istituzione inaridita dall’espansione della mano pubblica – a scegliere e non i governanti. Che è ciò che Friedman invocò anche per l’istruzione, facendo leva sui voucher, che avrebbero migliorato, secondo la proposta originaria, la qualità delle strutture d’insegnamento, facendo leva su un uso più efficiente delle risorse pubbliche.
Liberale, quindi. Costretto a vivere in tempi poco liberali. Il dopoguerra rappresentò infatti lo zenit della credibilità keynesiana, almeno fino al 1963, l’anno della pubblicazione, da parte di Friedman e di Anna Schwartz, di A Monetary History of the United States. Il volume di Friedman e Schwartz rimise al centro della scena la moneta, raccontando una storia diversa da quella propagandata dai manuali keynesiani. Se questi ultimi spiegavano la Grande Depressione come un prodotto di intemperanze endogene del mercato, spianando quindi la strada alla pianificazione monetaria come cura, Friedman invece ribaltò i termini del problema%2C suggerendo che la vera responsabile del crollo del ’29 fosse la Federal Reserve. La Fedavrebbe dunque contratto in modo eccessivo la circolazione di valuta, innescando una reazione a catena che sfociò nella grande crisi. Curiosamente, il 1963 fu anche l’anno in cui venne dato alle stampe un altro prezioso volume sugli eventi del 1929, America’s Great Depression, dell’economista di Scuola Austriaca Murray Newton Rothbard, che sosteneva esattamente la tesi opposta. Per Rothbard, in realtà, fu principalmente la politica inflazionistica perseguita da Benjamin Strong [chairman della Fed] ad aver prodotto cattivi investimenti e la conseguente crisi. Era un segno dei tempi: “Austriaci” e “studiosi di Chicago”, pur non essendo d’accordo sulla causa della recessione, si trovarono d’accordo sul fatto che la Grande Depressione fosse, come scrive Antonio Martino, “una esemplare illustrazione del ‘fallimento del governo’, della possibilità che l’uso improprio degli strumenti della politica economica costituisca un fattore potentissimo, inarrestabile di instabilità.” La stagflazione degli anni Settanta rappresentò il becchino del keynesismo. E’ in questo periodo che, a livello universitario, si fa strada il “monetarismo.” Friedman acquista una crescente influenza, fino ad ottenere nel 1976 il Premio Nobel per l’economia.
Quel Premio Nobel, ottenuto due anni dopo il conferimento a Friedrich August von Hayek (ironia della sorte, in compagnia di Gunnar Myrdal) e pochi anni prima dei trionfi elettorali di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, diede la misura del fatto che ormai il mercato era sfuggito all’embargo intellettuale a cui esso era stato costretto. Friedman stava passando alla storia come il più grande economista liberista del secolo. Nella realtà, Friedman non fu mai un economista liberista in modo ortodosso. Fu, per usare l’espressione di Sergio Ricossa, “imperfettista”, seppe accettare con serenità quelli che considerava pregi e difetti del mercato. Non aderiva a quella concezione espressa oltre un secolo prima da Frédéric Bastiat, per il quale il laissez-faire sarebbe stato in grado di armonizzare gli interessi di tutti. Nè si persuase mai che il compito dello stato, come proclama (con qualche limitata eccezione) la Scuola Austriaca, fosse semplicemente quello di non fare nulla. E, non a caso, questo atteggiamento gli valse non poche critiche all’interno dell’universo liberale. Fu lo stesso Rothbard, in un saggio del 1971, ad analizzare in modo minuzioso le sue posizioni e le relative implicazioni politiche. L’accusa rivolta a Friedman era quella di essere sostanzialmente una versione annacquata di Keynes. Rothbard, ad esempio, gli rimproverava di non aver raggiunto una posizione coerente sull’antitrust, ma soprattutto prendeva di mira il modello teorico monetarista che trattava la micro – e la macroeconomia come due compartimenti stagni dove la prima poteva essere lasciata alla libera interazione degli individui, mentre la seconda doveva essere orientata dalle banche centrali, attraverso l’espansione ad un tasso fisso della moneta circolante. Posizione insostenibile in termini austriaci (dove la micro e la macro costituiscono un livello unico) e che, per Rothbard, avrebbe finito per compromettere la libertà individuale. In tema di epistemologia, rimane forte la controversia sulla metodologia, empirista e quantitativa, adottata da Friedman e, più in generale, dalla Scuola di Chicago. Insomma, c’è chi ha visto in lui un liberale sì, ma un liberale-che-non-lo-è-stato-abbastanza.
Indipendentemente dal giudizio sulla sua opera intellettuale, Friedman rimane un’icona, se non l’icona, del liberalismo del secolo appena passato, probabilmente a causa della sua influenza sulla politica economica di vari governi, della sua visibilità. Gli derivava da un’interpretazione “pragmatica” del liberalismo. Certo, le idee hanno conseguenze ed era giusto piantare radici anche nell’opinione pubblica. Ma dove era possibile cavalcare le speranze di riforma, Friedman agì. Come in Cile dove i suoi allievi, i Chicago Boys, cambiarono il volto di un paese stremato dalle scelte politiche di Allende. E pazienza se questo non gli garantì i sorrisi e le strette di mano dell’intellighenzia che, armata di squadra, righello e compasso, era troppo impegnata ad architettare la transizione verso l’utopia. In fondo, non gli importava di quel che essa pensava. Era soprattutto quel complesso di superiorità che essa maneggiava senza cautela, quella “presunzione fatale” per cui consegnare la società nelle mani degli ingegneri sociali avrebbe fatto scorrere fiumi d’ambrosia, a patto che noi facessimo il piccolo sforzo di cedere ogni nostra libertà, ad irritarlo. Era poco comprensibile, guardando al senso comune, che si deprecasse l’unico sistema in grado di espandere la ricchezza generale, di permettere ai meno fortunati di approdare a lidi migliori.
Oggi, è l’Europa dell’Est ad aver preso sul serio la lezione di Friedman e a portarne avanti l’eredità. E’ stato un primo ministro coraggioso come Mart Laar, in Estonia, dopo aver letto Capitalismo e Libertà, a tradurre le idee del Premio Nobel in fatti, raccontando una bella favola liberista. Buona volontà, senza dubbio, ma anche un pizzico di fortuna. Perchè, come ha ricordato il Presidente Bush, “siamo fortunati che Milton Friedman sia andato male in alcuni esami per diventare contabile e che sia diventato invece un economista.” Come dargli torto?