Mir e Zahra Mousavi: la coppia giusta per la rivoluzione democratica in Iran?

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Mir e Zahra Mousavi: la coppia giusta per la rivoluzione democratica in Iran?

20 Giugno 2009

Che l’Iran sia il paese dei paradossi lo si evince dal titolo stesso che s’è dato – Repubblica Islamica –, dov’è un ossimoro immaginare la democrazia repubblicana a fianco della teocrazia islamista. Le contraddizioni proseguono infatti con elezioni presidenziali, controllate però dalla violenza dittatoriale del regime; e con una classe dirigente che delira l’esportazione internazionale della rivoluzione khomeinista ma deve fare i conti con l’anelito a una moderna libertà dei suoi studenti. Altro controsenso sull’Iran, che colpisce perfino chi vi si rapporti, è la figura del presidente Usa Obama: tutto il mondo lo ha vagheggiato come alfiere di speranze romantiche, invece si dimostra pragmatico seguace d’una realpolitik insensibile alle istanze idealistiche e spesso non calibrata. Ma il paradosso maggiore di questa situazione è certamente il personaggio del momento: Mir Hossein Mousavi.

Nato nel 1941, alla rivoluzione del ’79 fu tra i fondatori del partito Repubblica islamica, l’organo politico particolare del regime khomeinista. Direttore del giornale Repubblica islamica, il fedelissimo Mousavi dettò la linea politica di Khomeini. Negli anni Ottanta per la sua devozione verso Khomeini, Mousavi divenne premier ed ebbe un ruolo determinante negli atti sanguinosi del regime, almeno fino al 1989, tra cui si possono contare 144 azioni terroristiche all’estero (fu Moussavi a creare, tra l’altro, Hezbollah, col compito d’uccidere ebrei in tutto il mondo, da Buenos Aires a Tel Aviv), le fucilazioni di almeno 90 mila dissidenti politici, la fucilazione di 30 mila prigionieri politici in poche settimane nel luglio 1988, l’istituzione del famigerato ministero delle Informazioni e l’inizio degli assassini di catena degli intellettuali. Mousavi fu tra fautori della rivoluzione culturale nelle università, con assassini tra gli studenti, epurazione dei docenti progressisti e la chiusura delle università stesse che ha causato la fuga di milioni studenti e docenti. Il governo di Mousavi conteneva membri tra più corrotti e feroci, tra cui Reyshahri, Rafighduost, Asgaroladi. Fin dal 1989 egli è membro del Consiglio per i pareri di conformità del regime e ha partecipato a tutte le decisioni più importanti della dittatura iraniana; tra il 1998 e il 2005 ha coperto l’incarico del supremo consigliere di Khatami. Mousavi ha sempre partecipato nei consigli in cui si decideva la politica da seguire in materia atomica.

Mousavi negli anni ’80 si oppose al rilascio dei prigionieri americani e promosse l’ideologia talebana in versione sciita, tra cui la messa al bando del gioco degli scacchi. Sua fu la fatwa di morte contro lo scrittore Salman Rushdie, come ricorda Giulio Meotti sul Foglio: «Mousavi annunciò che i fedeli della Rivoluzione avrebbero preso “misure necessarie” per portarla a termine. Nel 1991 la fatwa e i dettami di Mousavi diedero i primi frutti: a Tokyo venne ucciso a pugnalate il traduttore giapponese dei Versetti satanici, Hitoshi Igarashi. 37 ospiti di un albergo a Sivas, in Turchia, furono uccisi nei tentativi di linciaggio del traduttore turco di Rushdie, Aziz Nesin. Anche il traduttore italiano di Rushdie stava per essere ucciso». L’animo gentile di questo politico non pare molto cambiato: mercoledì 20 maggio (2009) a un incontro con gli studenti all’Università di Tabriz, di fronte alla durezza delle domande poste dai ragazzi, il suo staff ha pensato bene d’interrompere l’incontro a suon di manganellate: una dozzina di studenti sono rimasti feriti e portati in ospedale dopo essere stati colpiti dai sostenitori di Mousavi.

Ora, come sia possibile che la Primavera di Teheran sia finita per avere come simbolo di libertà un tale campione del regime degli ayatollah, dalle mani lorde di sangue, si può capire solo considerando che in Persia spesso la linea più rapida per unire due punti non è la retta ma l’arzigogolo. Da un lato, alcune ipotesi sono inquietanti: forse Mousavi è soltanto un cavallo di Troia del regime per far uscire allo scoperto i suoi oppositori e meglio neutralizzarli, come si disse fu fatto già col premierato di Khatami; una volta soppressa con la forza la manifestazione popolare (attiva, peraltro solo nel centro della capitale e a Tabriz e Isfahan), inizierebbero le purghe, le torture, le sparizioni, gli omicidi delle squadracce del “democraticamente” eletto presidente Ahmadinejad.

Ma c’è chi non lo crede. Michael A. Ledeen, uno dei maggiori e più attivi analisti americani, Freedom Scholar alla Foundation for Defense of Democracies (FDD) di Washington, afferma che «il popolo iraniano non apprezza il regime, non vuole una Repubblica islamica e vorrebbe far parte del mondo occidentale. Sicuramente non vuole essere coinvolto in un sistema che sostiene il terrorismo anti-americano e anti-israeliano, che nega la Shoa e inneggia al martirio». E allora perché ha scelto Mousavi come suo paladino? «Se qualcuno avesse detto che Mousavi sarebbe stato alla testa di un movimento rivoluzionario nazionale, lui stesso ne avrebbe riso», spiega Ledeen; in ogni caso, «è sbagliato chiedersi se Mousavi desideri davvero cambiare sistema. Mousavi non è un leader rivoluzionario, ma uno reso tale dal movimento natogli attorno. La vera rivoluzionaria è sua moglie Zahra Rahnavard, la vera differenza tra Mousavi e Khatami». In un comizio di questi giorni, la signora Mousavi ha infatti pronunciato parole inequivocabili: «Siete qui perché non volete più una dittatura, perché volete un Iran libero, perché sognate relazioni pacifiche con il resto del mondo». Dice Ledeen: «Il fatto che la signora Rahnavard sia divenuta una figura centrale nello show della campagna elettorale è una grande sorpresa, forse rivoluzionaria. Adesso, all’improvviso, è divenuta una figura politica nazionale. Essa minaccia le fondamenta del sistema: se alle donne vengono garantiti eguali diritti rispetto agli uomini l’intera struttura del regime khomeinista potrebbe essere messa in dubbio. Tutti in Iran riconoscono questo fatto. Il mistero riguarda il perché le sia permesso farlo. Per dirlo in parole crude, il leader supremo Ali Khamenei avrebbe potuto decidere d’interrompere bruscamente la campagna elettorale di Mousavi sin dagli inizi. Però non l’ha fatto. Perché?».

Le ipotesi oggi sono le più astruse, dai complotti ai doppiogiochismi alle interferenze straniere, ma se la verità fosse modestamente la più banale? Forse gli ayatollah hanno semplicemente commesso un errore madornale. Le loro valutazioni sono state ingenue come l’intera loro strategia governativa di questi trent’anni, capace di non azzeccare nessuna mossa politica e portare al collasso economico il paese più ricco del pianeta. Non si sono resi conto di una cosa che ha stupito perfino Mousavi stesso: la Primavera di Teheran aveva talmente poche bandiere da sventolare contro il regime che ha afferrato la prima a portata di mano, l’unica disponibile a far opposizione sperando di far cadere il governo Khamenei-Ahmadinejad. Turandosi il naso, secondo l’insegnamento montanelliano.

Un’altra congettura considera l’ambiziosa lotta per il potere fra Ahmadinejad e Mousavi. Non potrebbe essere accaduto che nello scontro interno fra i due, quest’ultimo si sia reso conto d’avere come unica chance la riunione dietro a sé di tutti gli oppositori al regime, compresi i suoi nemici un tempo perseguitati, ed ergersi così a eroe del cambiamento? Tanto poi, una volta al comando, ci sarebbe sempre la possibilità di vanificare le promesse di cambiamento.

Un’ultima possibilità, infine, riguarda proprio sua moglie Zahra Rahnavard, e sarebbe la supposizione più ottimistica. Laura Cogo ne illustra la figura: «Per la prima volta dalla rivoluzione del 1979, una donna è apparsa sui manifesti elettorali stringendo la mano del marito. Sotto lo chador nero ne porta uno colorato. Durante la campagna Rahnavard ha viaggiato in lungo e in largo per il paese, a volte da sola, chiedendo l’espansione dei diritti per le donne, migliori opportunità di educazione e di lavoro. Alle conferenze stampa si presentava pesantemente truccata, in completa noncuranza delle leggi vigenti in Iran che invece lo proibiscono. Il suo impegno nel movimento femminista iraniano ha riguardato, però, solo l’ultima parte della sua vita. Nata in un’importante e agiata famiglia, fa il debutto sulla scena politica tra le fila del movimento di opposizione all’autoritarismo dello scià, mentre era ancora studentessa di storia all’Università di Teheran. Dopo la rivoluzione appoggia le riforme dell’ayatollah Khomeini. Non è prima degli anni ’90 che Zahra Rahnavard inizia a lavorare in contro tendenza rispetto al governo del paese per eliminare le restrizioni al lavoro femminile. Denuncia pubblicamente la situazione delle donne in Iran, considerate ancora come cittadine di serie B. Durante il governo di Khatami, che apprezza le sue idee, viene nominata direttrice della al-Zahra Women’s University nel 1997. Da quel momento inizia una serie di campagne per ottenere una legislazione più severa contro le violenze contro le donne, ma senza successo. Ahmadinejad, infine, la rimuove dalla presidenza dell’Università».

Si dice che in Persia niente può essere fatto rapidamente, tantomeno le rivoluzioni, ma così non è stato nel ’79, e una cosa sola è certa nelle rivoluzioni: sono imprevedibili. Forse anche a Mousavi e a sua moglie potrebbe essere sfuggita di mano la situazione, e una normale opposizione di potere potrebbe essersi trasformata in una svolta storica per l’Iran, anche sulla scia di un rinascimento femminista. La conclusione, tuttavia, resta una sola: suo malgrado oggi Mousavi incarna la rivolta, volente o nolente e non si sa per quanto tempo prima d’essere sostituito con una figura meno imbarazzante, ma è a lui che occorre adesso fare riferimento per compattare gli oppositori alla dittatura dei mullah, dei Basij e dei Pasdaran. Misteri d’Oriente.