MO: il governo di unità nazionale è un ostacolo al processo di pace

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MO: il governo di unità nazionale è un ostacolo al processo di pace

22 Marzo 2007

Costantemente affannata alla ricerca di promesse o avvisaglie di garanzia, l’Europa non vuole vedere, non vuole capire che dal neonato governo palestinese di unità nazionale non deriva nessuna garanzia di pace. L’intesa tra Fatah e Hamas – risultato dell’incontro tenutosi lo scorso febbraio alla Mecca con la mediazione di re Abdallah – ha, senza ombra di dubbio, assegnato un punto a favore del movimento islamico, sporcando la fedina penale del presidente Abu Mazen. Lo scarso potere contrattuale del partito Fatah, compromesso da mesi di scontri e sconfitte sul campo, ha costretto Abu Mazen a cedere, a non chiedere ad Hamas di spendere quella moneta fondamentale cui un’intesa governativa palestinese dovrebbe tendere: il riconoscimento dello stato di Israele.

L’interesse immediato che ha spinto entrambe le parti ad raggiungere un accordo – l’esigenza comune di riaprire i rubinetti dei finanziamenti occidentali – ha avuto come conseguenza la perdita di legittimità e credibilità internazionale del presidente palestinese. Il rais ha dovuto accettare una piattaforma politica per il nuovo governo che si fa beffa dei principi indicati dal Quartetto composto da Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu: riconoscimento del diritto ad esistere dello Stato di Israele, ripudio del terrorismo e della violenza, rispetto e applicazione degli accordi già firmati con Israele.

Ma l’Europa finge di non vedere. Nell’intervista di Davide Frattini del Corriere della Sera ad Ismail Haniyeh, capo del governo Hamas – Fatah, il leader palestinese afferma: “Lunedì ho incontrato il viceministro degli Esteri norvegese e ho ricevuto la telefonata del vostro sottosegretario, Vittorio Craxi. Due segnali molto importanti. Consideriamo i contatti con gli italiani un grande passo verso la fine dell’assedio internazionale”.

E mentre l’Italia, la Spagna e l’Irlanda mirano ad una riqualificazione del governo Hamas-Fatah; mentre la Norvegia invia il suo viceministro degli Esteri a incontrare Hanyeh; l’Europa sembra dimenticare le dichiarazione dell’ex ministro delle Finanze dell’Autonomia Samitr Abu Aisha, secondo cui l’aiuto straniero all’Autorità palestinese si sarebbe raddoppiato nel 2006: 720 milioni di dollari sarebbero stati donati direttamente ad Abu Mazen, a fronte dei 350 milioni dell’anno precedente. Tali finanziamenti, insieme ai 426 milioni di dollari dell’Unrwa e alle forniture versate ad Hamas dall’Iran di Ahmadinejad, non rendono giustificabili, comprensibili le difficili e disastrose condizioni in cui versa il popolo palestinese. L’Europa dovrebbe a questo punto chiedersi che fine facciano questi soldi, dovrebbe capire se davvero vuole arrampicarsi sugli specchi per individuare una legittimità del nuovo governo palestinese, che, dal canto suo,  non sembra adoperarsi affatto a cercarne una.

I leaders di Hamas non si nascondono, non celano dietro false promesse i propri piani di ostilità. Sono sempre espliciti, sempre chiari; fin troppo. Le parole del ministro degli interni uscente Said Siam.(“Non vi è alcuna possibilità che Hamas riconosca mai Israele. Noi non tradiremo i nostri valori e non tradiremo la nostra terra. Noi lasceremo questo mondo come shahid (martiri) senza riconoscere Israele”); accompagnate dall’ambiguo discorso con cui il premier di Hamas, Hanyeh, si è impegnato a “continuare la resistenza con tutti i mezzi”, danno una chiara percezione della carenza assoluta di sicurezza e garanzia che tale nuovo governo riserva allo Stato ebraico. La recente reazione di Hamas al messaggio audio realizzato dal numero due di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri non lascia ombra di dubbio: il movimento islamico palestinese avverte l’obbligo, la necessità di rispondere al Al Qaeda, considerata un interlocutore cui sono dovuti rispetto e spiegazioni.

Il governo palestinese sembra compromettere anche le speranze di rasserenamento che l’incontro tra i capi di stato arabi in Arabi Saudita la prossima settimana sembrava presagire. Il 28 marzo a Riad, al summit della Lega Araba, il re Abdullah ripresenterà la sua proposta del 2002: ritiro sui confini del 1967 in cambio del riconoscimento arabo d’Israele. Il governo Olmert potrebbe accettare il testo come base di nuovi negoziati solo se fossero apportati emendamenti, primo fra tutti la clausola del ritorno dei profughi, oggi circa 4 milioni.

A Israele la proposta saudita non sembra dispiacere: “Speriamo molto che durante il vertice dei capi di stato arabi a Riad gli elementi positivi espressi nell’iniziativa saudita siano resi validi e magari possano rafforzare le possibilità di negoziati tra noi e i palestinesi”, ha affermato il premier israeliano Olmert. La bozza presentata dal re Abdullah nel 2002 aveva dovuto subire le modifiche imposte dai paesi della Lega (dichiarazione di Beirut), diventando inaccettabile per Israele. Oggi, l’Arabia Saudita sembra poter contare sull’appoggio di Paesi sunniti amici, come l’Egitto e la Giordania, che, spaventati dalla crescente egemonia iraniano-sciita nel mondo arabo, potrebbero aiutare il sovrano saudita a mantenere intatto il testo originale. La prospettiva sembra interessante anche per il governo israeliano: Olmert, accusato di non disporre più di un piano dopo gli scarsi risultati conseguiti alla decisione di Israele di concedere ritiri territoriali, potrebbe individuare nella bozza una nuova piattaforma politica dalla quale rilanciare l’iniziativa israeliana. Una piattaforma che, fino a pochi giorni fa, sembrava poter essere condivisa da Abu Mazen. Ma il nuovo governo palestinese di unità nazionale dipinge a tinte fosche l’orizzonte della pace in Medio Oriente.