Molti buoni motivi per ripensare la politica agricola comune
17 Ottobre 2007
“I
giorni dei cerali a basso costo sono finiti”, ha dichiarato Dan Basse, presidente della AgResource, società di analisi dei dati sulle materie prime di Chicago. Gli
incrementi dei prezzi di quest’anno paiono dargli ragione. Infatti i prezzi di
soia e mais prodotti in Illinois sono cresciuti rispettivamente
del 75% e del 40% rispetto allo scorso anno, mentre il grano
del Kansas ha registrato una crescita del 70% o più.
Dall’analisi
della serie dei prezzi dei futures della Borsa di Chicago (la
prima la mondo per i mercati dei generi alimentari) si evince che si tratta di
un aumento tutt’altro che legato al contingente (raccolti scarsi), ma dovuto al fatto che i farmers trovano più conveniente vendere i
propri prodotti alle compagnie energetiche per produrre elettricità piuttosto
che farne cibo. Ma non basta questo, perché anche
milioni di persone in Asia e Sudamerica grazie al miglioramento delle
condizioni di vita, effetto della deprecata globalizzazione, possono spendere
più denaro per comprare generi alimentari fino ad allora inarrivabili. Detto in
breve, il cinese della middle class o il softerista della net company indiana
può permettersi tra la ciotola di riso o un piatto di pasta o una bistecca alla
texana. Ecco come si spiega l’aumento della domanda di latte e carne, che a sua volta incremanta la domanda di cereali per nutrire il
bestiame.
L’inversione
della tendenza all’abbassamento dei prezzi dei cereali potrebbe, però, produrre degli effetti nefasti. Infatti le riserve
stanno arrivando al punto più basso degli ultimi anni e ciò potrebbe rendere il
mondo assai debole di fronte a crisi prodotte
da carestie o cattivi raccolti. Anche l’aumento delle superfici
coltivabili ha un limite ben preciso che non può essere varcato, pena i disastri ambientali che avvennero negli stati degli USA delle
praterie negli anni ’80 dell’Ottocento o negli
anni ‘30 del Novecento. Per di più il rincaro dei prezzi
minaccia anche di impedire alle charities di fornire cibo alle centinaia di
milioni di persone che vivono di sussidi alimentari nei paesi del Terzo Mondo, specie in quelli africani martoriati da lunghissime e sanguinose guerre
civili e tribali.
Allora
come se ne esce? Anzitutto con un approccio e un utlizzo più sensato delle
biotecnologie, da non vedersi più come qualcosa di mefitico o
mefistofelico ma come una straordinaria opportunità di sviluppo. Si pensi a una
varietà di mais capace di reggere alle siccità, perchè dotato del gene di una
pianta bisognosa di poca acqua: renderebbe coltivabili non solo in modo stabile
gli States delle praterie, ma anche molti paesi africani e asiatici che oggi
stentano a produrre cibo per sé ma che così addirittura potrebbero esportarne
per l’estero, con benefici effetti sulla propria economia. Senza
contare che il bio-diesel potrebbe diventare una realtà assai
conveniente.
Poi
è necessario un ripensamento della polica agricola comune, che non sia solo benefica verso gli elettorati rurali dei principali
paesi dell’Unione Europea, come Francia o Regno Unito, ma sia
finalizzata alla realizzazione di un nuovo modello di vita e sviluppo. Ciò è
tanto più vero in ragione dello spostamento di milioni di europei dalle aree urbane ai piccoli centri. Si tratta di un fenomeno che l’eurocrazia
trascura. Sapranno Sarkozy, Merkel e Gordon Brown interpretare e
gestire il cambiamento? A Prodi non si
può chiedere perché non conta molto e
soprattutto vede tutta la crisi attuale con gli schemi intellettuali di
trent’anni fa, come ha candidamente ammesso al Convegno di politica industriale
di Foggia del 20 settembre scorso.