“Molti errori, ma in Iraq si può ancora vincere”
13 Aprile 2007
di redazione
Vera e propria autorità in materia di sicurezza e relazioni internazionali, Richard Perle è tra i massimi esponenti dell’American Enterprise Institute, uno dei think tank americani più autorevoli e influenti del momento. Già membro e presidente del Defense Policy Board al Pentagono, è autore di numerose pubblicazioni e collabora con il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal, il Daily Telegraph e il Jerusalem Post. L’Occidentale ha potuto raccogliere le sue riflessioni sulle questioni internazionali più importanti, con il Medio Oriente e gli Stati Uniti in primo piano.
Partiamo da una considerazione sull’Italia. Che pensa della vicenda riguardante il rapimento del reporter Mastrogiacomo e delle sue potenziali conseguenze?
L’Italia ha sempre trattato per la liberazione dei suoi ostaggi sia in Iraq che in Afghanistan, ma questa circostanza è diversa perché in cambio di Mastrogiacomo sono stati rilasciati dei guerriglieri talebani, i quali una volta riprese le armi potranno colpire i soldati degli altri paesi della coalizione guidata dalla Nato. C’è poi il rischio che la richiesta di rilasciare talebani in cambio di ostaggi occidentali possa divenire una prassi abituale. L’attuale governo italiano, con il suo comportamento, ha messo in pericolo la sicurezza delle truppe alleate e ha minato la tenuta del già fragile governo Karzai.
A quattro anni dalla caduta di Saddam Hussein, l’Iraq non è ancora stabilizzato. Una guerra civile e confessionale strisciante, combinata al terrorismo jihadista targato al Qaeda, impedisce al governo democraticamente eletto di esercitare la piena sovranità e alla popolazione di costruire il proprio futuro in una società finalmente liberata dalla tirannia del regime baathista. È evidente che nei piani dell’amministrazione Bush qualcosa è andato storto. Che sbagli sono stati commessi?
Dopo la caduta di Saddam Hussein, una serie di errori e mancanze ha condotto alla situazione attuale, non c’è dubbio. In primo luogo, a parer mio, fatale è stato il lungo periodo di amministrazione provvisoria. Gli iracheni avrebbero dovuto prendere in mano fin da subito le redini del processo politico, invece a Washington è prevalsa la convinzione che gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di costruire le fondamenta del nuovo Iraq da soli, coinvolgendo le componenti locali in un secondo momento, a debaathificazione compiuta. Ma l’Iraq è degli iracheni, non degli americani. Nessuno all’infuori degli iracheni poteva avviare con successo il paese verso la sua rinascita. In questo modo, anche i sunniti si sarebbero sentiti maggiormente coinvolti. Agli Stati Uniti spettava solamente il compito di fornire tutta l’assistenza necessaria.
Dal punto di vista strettamente militare, dove l’amministrazione Bush poteva fare meglio?
Nel garantire la sicurezza degli iracheni. Specie all’inizio, la priorità era proteggere i soldati americani, non la popolazione. I soldati, infatti, rimanevano per lo più chiusi nelle basi militari, invece di fare da scudo agli iracheni e interagire con loro. Inoltre, la messa in piedi di forze di sicurezza irachene efficienti è andata troppo per lunghe e sconta tuttora dei ritardi.
Il rafforzamento dell’impegno militare voluto da Bush ha proprio l’obiettivo di colmare tali lacune, anche se appare tardivo di fronte a una situazione che per i più pessimisti è ormai irrimediabilmente compromessa. Cosa ha trattenuto la Casa Bianca dall’intervenire con maggiore anticipo? La nuova strategia affidata al generale Petraeus può essere risolutiva?
A Washington, probabilmente, è sfuggita per troppo tempo la comprensione di quanto si stava verificando sul campo. La nuova strategia dimostra, tuttavia, una maggiore consapevolezza. La speranza è di vedere al più presto chiari segnali di miglioramento.
È ancora possibile una vittoria in Iraq?
Se per vittoria s’intende lasciare in eredità al popolo iracheno la facoltà di scegliere liberamente da chi farsi governare; se s’intende l’instaurazione di un governo che non sia fonte d’instabilità per la regione, che non rappresenti una minaccia per i paesi vicini e per il mondo intero, che non cerchi di dotarsi di armi di distruzione di massa e che non massacri una parte della popolazione piuttosto che l’altra, allora sì, in Iraq la vittoria è ancora possibile.
Eppure, dal punto di vista diplomatico, il nuovo corso avviato da Bush sembra presupporre il coinvolgimento di Iran e Siria nel processo di stabilizzazione dell’Iraq. La conferenza regionale che si è svolta a Baghdad ha visto la delegazione statunitense seduta allo stesso tavolo con la delegazione iraniana e con quella siriana e lo stesso si ripeterà a maggio in Egitto. Teheran e Damasco fanno parte dell’Asse del Male e sono la causa principale del caos che oggi attraversa l’Iraq, nonché, di conseguenza, della perdita di numerosi soldati americani. Cercare la loro cooperazione, non è un’implicita ammissione di resa?
Non c’è nessun serio programma che prevede il coinvolgimento in Iraq di Siria e Iran. Sono due paesi nemici e pensare che l’amministrazione Bush possa cambiare linea in proposito è un grave errore di valutazione. La conferenza di Baghdad, e le altre che seguiranno in futuro, servono al nuovo Iraq per reintegrarsi diplomaticamente nel contesto regionale e agli Stati Uniti come aggiustamento tattico divenuto obbligatorio vista la situazione di difficoltà. Ma è da escludere che si possa raggiungere un compromesso con i regimi di Teheran e Damasco.
Nancy Pelosi, la speaker democratica della camera dei rappresentanti, pare invece intenzionata ad aprire un dialogo almeno con la Siria. Il suo recente incontro con il dittatore siriano Assad può essere considerato un’anticipazione della linea che i democratici seguiranno in Medio Oriente una volta conquistata la Casa Bianca? C’è la possibilità di un allineamento dei democratici alla politica di appeasement che gli europei hanno adottato verso il fondamentalismo islamico e verso le dittature che finanziano il terrorismo jihadista?
La visita di Nancy Pelosi in Siria è un evento pressoché irrilevante, una mossa mediatica a uso domestico, con l’obiettivo di screditare l’amministrazione Bush e i repubblicani in vista delle elezioni presidenziali. Pertanto, non avrà alcuna ripercussione sulla situazione in Medio Oriente. Ripeto, non c’è nessun serio tentativo di scongelare le relazioni con Siria e Iran. Su questo c’è un consenso bipartisan. Democratici e repubblicani hanno la stessa percezione del nemico: il fondamentalismo e il terrorismo islamico, insieme ai loro sponsor. Larga parte dei democratici ha votato a favore della guerra in Iraq e per quanto riversino ferocemente le loro critiche sull’amministrazione Bush, non fanno confusione su chi sia il nemico, mentre in Europa questa chiarezza non esiste. Sono certo che un democratico alla Casa Bianca non accetterà mai la logica europea del cedimento, se è vero che gli europei possono permettersi una politica di appeasement proprio perché gli Stati Uniti la rifiutano con fermezza. Non abbiamo altra scelta, siamo l’ultima linea di difensiva, non possiamo crollare. Gli europei hanno le spalle coperte e ne approfittano, rigettando ogni responsabilità pur di non prendere decisioni difficili che possono avere alti costi in termini di consenso.
È chiaro, dunque, che il successo nella guerra al fondamentalismo e al terrorismo islamico dipende in gran parte dalla volontà americana. I conflitti in Iraq e in Afghanistan stanno segnando profondamente l’opinione pubblica. Oltretutto, non è possibile prevederne la durata, che potrà essere ancora molto lunga. Esiste il pericolo di un crollo del fronte interno?
È troppo presto per fare previsioni al riguardo. La democrazia e la libertà non sono conquiste permanenti e il pericolo di un cedimento nella difesa della nostra cultura è reale. Già ai tempi della guerra fredda si è posta la stessa domanda: avranno gli Stati Uniti la forza morale e intellettuale per sconfiggere il comunismo? Ebbene, ce l’abbiamo fatta e questo deve indurre all’ottimismo anche nel caso del nemico che oggi l’Occidente si trova ad affrontare.
Ma si può essere ottimisti nei confronti dell’Iran? Gli ayatollah rinunceranno mai al programma nucleare?
Sull’Iran, invece, sono piuttosto scettico. Non siamo ancora giunti al punto in cui l’uso della forza è l’unica opzione possibile, tuttavia la diplomazia e le sanzioni possono essere efficaci solo se a sostenerle è la comunità internazionale nel suo complesso. Sfortunatamente, Russia e Cina non vogliono cooperare e dagli europei non c’è da aspettarsi nulla di buono.
Quali sarebbero le conseguenze di un Iran dotato di armamenti nucleari?
Il mondo diverrebbe più insicuro. Non solo perché c’è il rischio che la teocrazia degli ayatollah possa davvero farne uso, ma perché a quel punto dovremmo aspettarci la reazione d’Israele (che Ahmadinejad ha minacciato di distruzione), dell’Arabia Saudita e delle altre monarchie del Golfo (che potrebbero cedere alla tentazione nucleare nella logica della deterrenza). Senza dimenticare gli Stati Uniti, che al solito dovranno farsi carico della sicurezza dell’intero Occidente.
Se questa è la situazione, solo un cambio di regime in Iran potrà scongiurare simili scenari. Si tratta di un’ipotesi plausibile?
Sì, se l’Occidente rafforzerà il suo sostegno all’opposizione interna al regime. La teocrazia sciita ha molti antagonisti. Questi, però, da soli, abbandonati a se stessi, non hanno la forza per spodestare gli ayatollah. L’Occidente, allora, deve intervenire in maniera più massiccia a supporto dell’opposizione interna, perché nel lungo periodo si può prospettare uno scenario simile a quello polacco. In Polonia, il costante appoggio all’opposizione anticomunista ha portato a un cambio di regime dall’interno che poi ha dato vita a istituzioni democratiche. Nei confronti dell’Iran bisogna procedere con lo stesso paziente approccio. Troppo tempo è già stato perso, ora è il momento di accelerare prima che la finestra di opportunità per il rovesciamento degli ayatollah si chiuda per sempre.