Mondiali, se siete a Johannesburg meglio non uscire dopo il tramonto

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Mondiali, se siete a Johannesburg meglio non uscire dopo il tramonto

22 Giugno 2010

Johannesburg, ore 10, tre giorni al mondiale. Sono seduto nella hall di un albergo del centro (anche se a Jo’burg, il centro è tutta un’altra cosa). In questo hotel non ci dormirò, è pure pieno, e in verità non so ancora dove starò per il prossimo mese. Da quando preparo la trasferta in Sudafrica, parlando con i colleghi o leggendo i vari briefing interni, la cosa più importante è sempre la solita: la sicurezza a Johannesburg. Città pericolosissima, capitale di un paese da 18.000 omicidi all’anno, con un quinto della popolazione affetta dall’HIV. Ora, considerando che sono arrivato solo un’ora fa, e non so ancora cosa ne sarà di me nei prossimi 35 giorni (e notti), non mi stupisco che una voce dentro rimpianga di non essermene rimasto a casa ad aspettare i mondiali in poltrona.

Sono in Sudafrica per la CNN, faccio parte della crew di circa 25 persone che il canale americano ha sul posto per i Mondiali. Ci dividiamo tra quelli provenienti dal bureau di Atlanta e i giornalisti in arrivo da Londra. Veniamo da tutto il mondo, almeno un rappresentante di ogni continente, e io sono l’unico italiano. Nonchè l’unico squinternato che piuttosto che farsi prenotare una camera da letto in sicurezza come i propri colleghi, ha deciso di provvedere da solo alla propria sopravvivenza. Senza agenzie di viaggio, solo con l’esperienza e con internet, così come potrebbe fare qualsiasi altro tifoso o viaggiatore che volesse scegliere di venire a Johannesburg. Perchè poi sarebbe troppo facile parlare di Sudafrica sicuro o insicuro, visto dall’oblò del Media Center o dal pullman per i giornalisti.

Adesso però maledico la mia scelta. La mattina soleggiata fredda di Johannesburg invade le strade mentre io aspetto arrivi un tizio che deve affittarmi il suo monolocale. L’ho conosciuto in internet su un famoso sito inglese di annunci. Praticamente conosco tutta Johannesburg – via cartina. Ho visionato centinaia di offerte, mandato altrettante mail e fatto una cinquantina di chiamate, prima di selezionare il posto. Ho sezionato ogni quartiere, ogni proposta, e tentato di leggere tra le righe degli annunci. Aspetto che il padrone di casa risponda al cellulare, rimango asserragliato nella hall dell’albergo, e mi rendo conto che non posso fare quello che avrei fatto normalmente in una situazione come questa: uscire fuori a camminare, raggiungendo magari il posto a piedi.

Siamo nella city, il quartiere economico della città. Banche, uffici, c’era anche la Borsa, la più grande d’Africa, con il commercio di oro e diamanti. Eppure, non c’è una persona in giacca e cravatta che cammini per la strada, non ci sono colleghi che si spostano parlando di lavoro, non c’è nemmeno un autobus in giro, che scarichi impiegati o gente normale. Per strada si vedono quasi solamente persone dagli abiti lisi, ragazzotti sfaccendati, e nei non infrequenti giardinetti, un sacco di gente che sembra aspettare non si sa cosa. Una cosa sembra chiara: la loro quotidianità non appartiene a quello che avviene negli uffici del centro. E allora che diavolo ci fanno qua, e chi ci sta in questo quartiere?

Di tutte le particolarità di Jo’burg, questa è sicuramente quella che la rende unica al mondo, e che disegna il problema sicurezza della città sudafricana. Proviamo a spiegare: il centro di Johannesburg è in assoluto il quartiere più pericoloso di tutta la città, tra i più pericolosi di tutto il Sudafrica. Persino chi viene dalle township, e nelle township si muove di notte perchè sa come funzionano, quando sente parlare di Braamfontein – la city – mi intima: "Non devi assolutamente uscire dopo il tramonto. Assolutamente!". Eppure, è il centro della vita economica. E tale appare (all’occhio sembra una Dallas anni Settanta, in proporzione). Ma la city è pericolosissima. Di giorno c’è quasi tregua: non è il caso di andarsene a zonzo, ma un giro per fare la spesa si può anche fare, giusto qualche isolato.

Quando poi si fa sera, ovvero alle 18.00 perchè qui è inverno pieno, non è esagerato dire che sembra il set di uno di quei film post-guerra nucleare, dove la metropoli è deserta e spettrale. Nessuno per strada, solo qualche sagoma in ombra che spunta ogni tanto, e sembra davvero un film brutto. Non c’è una vetrina, perchè calano le saracinesche su tutti i negozi (pensateci bene: da noi invece le vetrine rimangono a vista, al massimo solo parzialmente coperte dalle serrande). Perfino i bancomat scompaiono: cala la serranda e non sono più accessibili. Un provvedimento preso dalle banche già da qualche anno, quando ormai non si contavano i terminali fatti saltare in aria.

Questa è la città. E questo è il rapporto della persona fisica con la città: dall’aeroporto sono arrivato con un taxi (con il marchio municipale); aspetto nella hall che mi venga a prendere in macchina il padrone di casa per portarmi nella mia sistemazione; nei prossimi giorni solo in taxi uscirò di casa e mi muoverò. Insomma, si passa da luogo delimitato a luogo delimitato: la città è altro da te. Ma è impossibile che solo solo nelle township si scende in strada (peraltro, le township, non sono così diverse da molti sobborghi del Sud Italia, solo più regredite). La gente di Jo’burg dovrà pur passeggiare da qualche parte. Ci sarà una piazza dove si ritrova, una via dove va a mostrarsi.

La gente di Johannesburg va mezz’ora a nord della città, a Sandton. E’ surreale: quando è finito l’apartheid, i neri hanno cominciato ad affluire verso la city, dove prima non avevano accesso. Irrimediabilmente, anche la criminalità è calata nel centro, vicina ai soldi come mai avrebbe potuto immaginare (anche se in Sudafrica danno soprattutto la colpa all’immigrazione nigeriana). I bianchi e le istituzioni, sentitisi circondati, si sono trasferiti in massa a Sandton: nel giro di 10 anni, una periferia come tante altre si è trasformata architettonicamente, ricordando vagamente le geometrie di Rodeo Drive a Beverly Hills. La Borsa e gli uffici d’elite sono a Sandton dal 2000; quelli più ordinari rimangono nella city. Le strade sono diventate quelle dello struscio, con uno shopping center che si snoda su tre vie collegato da ponticelli sopraelevati.

E poichè ogni luogo simbolo di una città ha bisogno della sua piazza, è stata creata anche Nelson Mandela Square: al centro la statua del padre della patria, intorno ristoranti. Ma a ben vedere, è una piazza davvero piccola per una città come Jo’burg, tanto da ricordare una di quelle false piazze in miniatura ricreate nei centri commerciali dell’outlet. Eppure, dall’oggi al domani, tutta la città non ha faticato a ritenere Sandton il nuovo centro. Tanto che la nazionale del Sudafrica, in parata con l’autobus tra la folla prima dell’inizio dei Mondiali, si è unita alla grande festa con la città proprio qui, e non in mezzo ai quartieri più popolari. Ma come si mantiene la sicurezza a Sandton, come si può vivere – o sopravvivere – nella city? E chi mi assicura che quando (e se) raggiungerò il mio appartamento, non mi alleggeriranno definitivamente di ogni valigia?

L’equilibrio di Johannesburg si regge su un vero e proprio esercito di guardie di sicurezza. Ovvio, è presente in maniera massiccia anche la polizia, ancora più presente durante i mondiali. Ma la vita di Johannesburg scorre grazie alle migliaia di guardie che presidiano ogni esercizio, ogni ufficio, ristorante o albergo, e persino le scuole. Licei o università, fino agli asili delle township, hanno la loro guardia di sicurezza. Ma soprattutto, ce l’ha ogni abitazione che si rispetti. Il gabbiotto del portinaio ha lasciato lo spazio a una guardiola con vetro anti-proiettile, presidiata da minimo tre guardie presenti a ogni turno. E’ una sorta di dichiarazione di protezione, dall’atrio verso la strada. Me ne accorgo ancora di più quando il padrone della casa che affitto mi accompagna al palazzo del mio appartamento. Guardie, vetro anti-proiettili, tornello di sicurezza per l’entrata e tornello di sicurezza per l’uscita. E soprattutto, al mio arrivo: documenti, identificazione, registrazione delle mie impronte digitali. Anzi dell’indice, che diventa la chiave del mio portone: nel palazzo infatti si entra solo grazie al laser che riconosce l’impronta del dito, mano destra. Non so se essere sollevato per la sicurezza che c’è dentro, o preoccupato per quello che rimane fuori.

Una cosa è certa: si sono allenati a questo sistema per anni a Jo’burg, e l’hanno applicato pedissequamente su tutto ciò che è Coppa del Mondo. Nei giorni a seguire, posso dire di non aver mai visto controlli di sicurezza così appurati all’entrata degli impianti: nemmeno a Germania 2006, quando la proverbiale efficienza della sicurezza tedesca andava a coppia con la crescente paura di un attacco terroristico. Eppure quattro anni fa, ai cancelli degli stadi i metal detector non c’erano. Qui, ogni tifoso deve passarci attraverso, svuotando le tasche, e passando poi un ulteriore perquisizione personale da una guardia. Come i controlli di sicurezza all’aeroporto, anzi meglio. Ogni tifoso, per ogni partita, in ogni stadio. Ripeto: ogni tifoso. Vale a dire, circa 60.000 in media a partita, tutti completamente setacciati per entrare allo stadio, nelle due ore prima del fischio d’inizio. E tutto intorno all’impianto, l’area è completamente chiusa all’accesso delle automobili, per un raggio di 2 chilometri. E sì che spesso gli stadi sono in mezzo alla città, nel pieno del traffico cittadino. Sembrava tutto improponibile, nella caotica e sregolata Africa. E invece sta succedendo, e nessuno ha niente da ridire.

A proposito: alla fine nell’appartamente ci sono arrivato, le valigie sono rimaste con me, l’abitazione è anche ospitale. E il mio vicino di alloggio è Hristo Stoitchkov. Ma non si fanno eccezioni nemmeno ai Palloni d’Oro: anche lui, se vuole entrare, deve farlo con l’impronta digitale.