Monti non è un riformista rivoluzionario ma il meno peggio per il paese
31 Marzo 2012
Ho letto con molto interesse l’articolo di Andrea Bellantone “La pedagogia rivoluzionaria del prof. Monti che soffoca l’Italia”, pubblicato il 29 marzo su questo giornale. Il pezzo è indubbiamente bello e ben scritto, non a caso figura tra i più consultati degli ultimi giorni nella classifica dell’Occidentale. Ho l’impressione, tuttavia, che l’autore prenda lucciole per lanterne, e vorrei spiegare le ragioni del mio giudizio.
Secondo Bellantone, dunque, Monti e il suo governo tecnico rappresentano il mito del riformista rivoluzionario. Che cosa s’intende con tale espressione? Risposta: “Il riformista rivoluzionario è un intellettuale che si sente autorizzato a collocare la propria visione del mondo fuori dalla storia e ad imporla agli altri come verità assoluta”.
E’ una descrizione assai impegnativa. Ricorda in modo straordinario Eric Voegelin quando scrive di alcune tendenze “gnostiche” presenti nel pensiero moderno e contemporaneo. Tali tendenze conducono a un rovesciamento completo dell’idea cristiana di perfezione, della quale, tuttavia, esse sono evidentemente tributarie. Salvezza e perfezione, categorie che per il cristiano appartengono all’aldilà, alla vita futura, vengono trasferite su questa terra. Siamo dunque di fronte all’eliminazione della celebre distinzione che Sant’Agostino aveva tracciato tra la “Città di Dio” e la “Città dell’uomo”: la prima viene negata, ma soltanto con lo scopo di trasferire tutte le sue caratteristiche nella seconda.
È un progetto di radicale immanentizzazione che, in quanto tale, si contrappone al pensiero cristiano e a quello liberale. Cristiani e liberali – rammentando che si può essere l’una e l’altra cosa – sono entrambi coscienti dei limiti intrinseci dell’individuo. Invece lo gnostico ignora questi limiti e si propone di superarli con un puro sforzo della volontà. Egli pretende di piegare totalmente il mondo alle esigenze di astratti schemi intellettuali, e di “educare le masse” fornendo loro un messaggio salvifico.
Può sembrare eccessivo scomodare Voegelin quando si parla di Mario Monti (e dei suoi ministri). Eppure, secondo Bellantone, l’attuale Presidente del consiglio assume le vesti dell’ingegnere sociale “che vuole mutare il modello economico e politico a priori, seguendo un progetto prestabilito e – per la gran parte – ideologico”. Vi sarebbe addirittura l’idea di “fare un’umanità nuova”, giacché a detta di certi osservatori stranieri Monti dovrebbe riuscire nell’impresa suprema di “educare gli italiani”. Impresa assurda, dal momento che lo spirito italiano non ha bisogno di maestri.
Per quanto affascinanti le frasi di cui sopra possano sembrare di primo acchito, a me pare sia opportuno rammentare come e perché è nato il governo tecnico. Vorrei insomma riportare il discorso su un piano più pragmatico senza usare espressioni roboanti. Si può discutere finché si vuole sulla decisione del Presidente Napolitano, e magari negare che fosse proprio quella la soluzione giusta. Impossibile però scordare i giorni in cui si parlava di default quale prospettiva concreta e non solo come rischio immaginario, l’ormai celebre “spread” che saliva senza freni, la contemporanea paralisi dei partiti politici.
Alcuni invocavano elezioni immediate, ma erano proprio i maggiori leaders politici a rendersi conto che esse non avrebbero risolto gran che, imponendo anzi una pericolosa sosta per preparare la campagna elettorale. L’autore ha in un certo senso ragione quando nota che le spinte esterne hanno avuto un grande peso nella nascita del governo tecnico. Ha torto – almeno a mio avviso – quando aggiunge che l’operato del governo Monti proviene dall’esterno delle tradizioni italiane e del nostro modello di sviluppo. Ma di quali tradizioni e di quale modello di sviluppo stiamo parlando, visto che il Paese si trovava – e ancora si trova – sull’orlo del precipizio?
Giusto dire che esiste un grande mainstream internazionale che spinge gli Stati in crisi a mettere ordine nei propri conti. Ma, piaccia o no, questo è il risultato della globalizzazione. Viviamo in un mondo economicamente interconnesso e, per quanto ci riguarda, non si dimentichi che metà del nostro debito è collocato all’estero e deve essere rinnovato nei prossimi mesi.
Io non percepisco alcuna “pedagogia rivoluzionaria” messa in atto per educare gli italiani. Mi limito a constatare che abbiamo avuto bisogno di spinte esterne per cominciare a muoverci e riacquistare credibilità sul piano internazionale. Né noto un dirigismo “rivoluzionario e giacobino” nelle azioni dell’attuale governo.
Vedo piuttosto un antieuropeismo dilagante e l’invocazione espressa da molti a “fare da soli”, magari uscendo dall’Unione Europea e dall’euro. Occorre riflettere seriamente su quanto accadrebbe se simili ipotesi diventassero realtà. L’Italia sta attraversando una fase di grande debolezza. Mi chiedo se, da sola, avrebbe maggiori possibilità di uscirne.