
Muffa al Grand Hotel

17 Aprile 2011
Alla fine del caldo pomeriggio il sole si accomiatava dalla decadente città di Ninive. Nel sontuoso salone del trono le colonne riflettevano la fiamma delle torce. Fra i preziosi broccati apparivano i satrapi indossando le loro ricche vesti blu, mentre le cariatidi, coperte di pietre e ori, tutte con la medesima espressione si apprestavano a partecipare alla cerimonia di presentazione al re Nabuccodonosor di due opere raccolte in rotoli di prezioso papiro, frutto del lavoro di eminenti figli dell’aristocrazia Assiro Babilonese. In un angolo arpe e cetre riempivano l’aria di note soavi…
Si potrebbe andare avanti per molte pagine con questa pappardella finta storica. Invece torniamo al presente, e precisamente a mercoledì sei aprile, ore diciotto. Il salone, in stile assiro babilonese, è quello del Grand Hotel di Roma, e la cerimonia è la presentazione di due libri scritti dal principe Giovannelli e dalla contessa Ripa di Meana. La musica, in bilico su accordi precari, è imputabile all’atroce pianista dell’albergo.
Dei libri (alcuni paragrafi dei quali ce li ha sbrodolati la voce sonnolenta del conte, marito della contessa) naturalmente non vale neanche la pena di parlare; ma della fauna sì. Era molto ma molto tempo che non bazzicavamo questo genere di serraglio, e avevamo dimenticato, o forse credevamo svanita nel passato, una decrepitezza così giurassica.
Naturalmente non la intendiamo riferita all’età dei presenti, peraltro avanzata, tanto è vero che il sorriso di quasi tutte le cocorite era chiaramente bisturizzato. Vogliamo proprio dire la muffa di una rappresentazione sociale del passato, anzi, del trapassato. Futile, se non per l’eterna ristretta famigliola a cui è destinata.
Stessi salamelecchi, stessi baciamano, stessi omaggi in gradi di deferenza crescente o calante a seconda del livello nobiliare. Vale di più un duca o un marchese? E la moglie è meglio bella o nobile? Fotografi in annoiato agguato a scattare la vedova Fanfani, generalessa della Croce Rossa con il petto coperto di nastrini e medaglie che neanche Napoleone, o l’attricetta con il petto non coperto da niente, in evidente ricerca di sistemazione al braccio di un qualcuno a noi sconosciuto ma importante.
Facce (le stesse, mummificate da decenni, e rigorosamente prive di qualsiasi guizzo di inquietudine esistenziale, o almeno di curiosità sul come e sul perché) destinate alla pagina mondana di quei quotidiani di livello locale che ancora ce l’hanno.
Scena all’inizio leggera per la sua inconsistenza. Poi ci siamo accorti che non succedeva niente di non tristemente mondano, che la cultura era latitante anche se si parlava di libri, e soprattutto che per l’anacronistica congrega di cui eravamo ospiti, questa muffa era stata e rimaneva il senso principale della vita. E allora ci siamo allontanati, purtroppo prima del cocktail, che prometteva bene.
Ci siamo allontanati, ma per fortuna, forse per un risarcimento dovuto, siamo andati a cadere, due giorni dopo, in una situazione schietta e limpida, senza una ragnatela.
Un concerto organizzato venerdì otto dall’Agimus all’Accademia di Romania, per ascoltare sei pianisti giovani, uno addirittura sedicenne, allievi del Corso di Perfezionamento di Santa Cecilia tenuto dal grande didatta Sergio Perticaroli, in un programma tutto di Liszt.
(Ci vogliamo regalare a questo punto una riflessione su come gira la storia. Guardiamo l’Accademia, magnifico edificio neoclassico, che la Romania si era costruita come vetrina della propria cultura in mezzo a Villa Borghese, all’epoca in cui era una nazione normale, non ancora triturata nel frantoio sovietico. Oggi ci viene da rabbrividire per il livello al quale è scesa questa disgraziata entità geografica nella cronaca quotidiana: un paese senza un centesimo, esportatore di poveri manovali violenti e ubriaconi, e di ragazze da marciapiede).
Seduti fra il pubblico, accanto al loro maestro (ma anche padre trepidante e orgoglioso, tanto è vero che del sedicenne ha tenuto ad annunciare al pubblico la gioventù), abbiamo trepidato e ci siamo inorgogliti con lui, testimoni delle emozioni che si inseguivano sul palco. Paura, tensione, soddisfazione. Ma anche talento e lavoro. Comunque, vita. Niente muffa, ma lievito per un futuro buon pane croccante.
Alto il livello di tutti i ragazzi, con una nostra preferenza per il sedicenne, Alberto Tessarotto, autoritario sul palco nel suo bel completo blu, alla tastiera dello strumento che in quel momento era la sua Ferrari. Quando poi siamo andati a salutarlo alla fine della prova, era ridiventato l’adolescente di prima: magrolino, capellone, timido e quasi spaurito.
Mea culpa. La settimana scorsa abbiamo dimenticato di segnalare che il bellissimo concerto di rodaggio del clavicembalo con Pierre Hantai era organizzato dall’Associazione Musicale Architasto. Scusaci, Architasto
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