Myanmar, contro il regime la via delle sanzioni è quella giusta

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Myanmar, contro il regime la via delle sanzioni è quella giusta

28 Settembre 2007

La protesta dei bonzi del Myanmar contro la giunta militare
al potere è sempre più al centro dell’attenzione della comunità internazionale.
Al Palazzo di vetro dell’Onu, in piena sessione ordinaria dell’Assemblea
generale, la questione è stata affrontata in varie sedi.

Per la giornata di mercoledì 26 è stata convocata d’urgenza
una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza, con l’audizione di
Ibrahim Gambari, inviato speciale nella regione del Segretario generale Ban
Ki-moon. Gambari ha reso noti gli ultimi sviluppi della crisi, anche se alle
domande dei giornalisti sul numero delle vittime della repressione della
protesta, la portavoce del Segretario Generale ha dichiarato di non avere
informazioni precise. La riunione del Consiglio di sicurezza si è conclusa però
con un nulla di fatto poiché, per l’opposizione di Cina, Russia e Indonesia,
non è stato possibile raggiungere un accordo sull’adozione delle sanzioni
economiche volute dall’Occidente che ha ritrovato l’unità di Usa e Unione europea.

Perplessità sono state sollevate sull’efficacia di tali
sanzioni che, come dimostrerebbe la storia recente, a partire dall’esperienza
irachena, indeboliscono le popolazioni e rafforzano le dittature. Dalle prime
sanzioni all’Iraq a oggi, però, qualcosa è cambiato nel modo di agire dell’Onu e
le targeted sanctions, a cui negli
ultimi tempi il Consiglio di sicurezza ha fatto spesso ricorso, potrebbero
essere uno strumento utile ad affrontare la crisi birmana. Si tratta di
sanzioni individuali che colpiscono esclusivamente le persone fisiche e
giuridiche indicate dal Consiglio o da un suo organo sussidiario (in genere il
Comitato delle sanzioni), evitando effetti collaterali su terzi innocenti. I
listati sono solitamente sottoposti al congelamento dei beni, al travel ban e all’embargo di armi. Di
questo strumento l’Onu si è avvalso nella lotta al terrorismo internazionale e
ad Al Qaeda%2C per la situazione in Liberia, in Libano e in Costa d’Avorio, e sebbene
si tratti di misure da perfezionare, per le complicazioni relative ai diritti
di difesa dei listati, la loro utilizzazione può considerarsi esperienza
positiva quanto all’esclusione di danni umanitari per le popolazioni civili.

L’unico risultato che il Consiglio di sicurezza è riuscito a
raggiungere è stato l’unanime benestare all’invio di Gambari in Myanmar, che tuttavia
per il diritto internazionale non è sufficiente a consentirgli l’ingresso nel
Paese. A tal fine è infatti richiesto il consenso dello Stato territoriale,
cioè della giunta militare di Yangoon, alla cui collaborazione ha fatto appello
lo stesso Ban Ki-moon.

Della crisi birmana ha parlato anche Louise Arbour, alto
commissario Onu dei diritti umani, che ha richiamato la giunta al rispetto dei
diritti fondamentali della persona, come garantiti dal diritto internazionale
generale. La Arbour
ha fatto espresso riferimento al divieto di arbitrarie privazioni della vita e
di arbitrari arresti e detenzioni, al divieto di tortura e di sottoporre la
popolazione a trattamenti o punizioni inumani e degradanti, oltre che alla
libertà di pensiero, di coscienza e religione. Confrontando il comunicato
stampa della Arbour con le dichiarazione della portavoce del Segretario
generale sull’assenza di informazioni specifiche sull’evoluzione della crisi,
sembrerebbe che l’alto commissariato Onu si sia riferito alle notizie di morti,
deportazioni e pestaggi diffuse a mezzo stampa.

Si tratta chiaramente di notizie da verificare, come da
verificare sarebbero le circostanze dei fatti, per poter eventualmente
considerare sussistenti gli estremi di un illecito internazionale. L’invio
nella regione di Gambari potrebbe essere utile ad avere un quadro più chiaro
della situazione, ma sarebbe più opportuna la costituzione di una commissione
di inchiesta. Anche in tal caso, tuttavia, occorrerebbe il consenso della
giunta.

Per un’azione del Consiglio di sicurezza, invece, non
necessita né l’accertamento di responsabilità internazionali né il consenso
della giunta. I suoi interventi ex Capitolo VII, tra cui l’adozione di sanzioni
economiche, sono decisi a fronte di un’accertata minaccia alla pace, violazione
della pace o atto di aggressione, a prescindere da eventuali responsabilità per
fatto illecito dello Stato contro cui si agisce e a prescindere dal suo
consenso. Si tratterebbe solo di verificare se nella nozione di minaccia alla
pace prevista dall’art. 39 della Carta possa considerarsi rientrante la
situazione presente in Myanmar.

Da tempo gli Stati Uniti tentano di battere
questa strada, appoggiati da varie organizzazioni non governative, ma senza
successo. Il 29 settembre 2005, l’amministrazione Bush, in una lettera al
Presidente del Consiglio, ha qualificato la crisi birmana come una minaccia
alla pace, sull’onda della pubblicazione di un rapporto commissionato da Vaclav
Havel, ex presidente della Repubblica Ceca e dal Premio Nobel per la pace,
Bishop Desmond Tutu. Pur nella crescita dei consensi a un intervento del
Consiglio, nel dicembre dello stesso anno, per l’opposizione di Algeria,
Brasile, Cina, Giappone e Russia, la questione è stata archiviata con una
consultazione informale che rinviava a ulteriori approfondimenti. Nel
frattempo, in varie risoluzioni, anche l’Assemblea generale e la Commissione dei
diritti umani Onu esprimevano la loro preoccupazione, richiamando l’attenzione
della giunta sul tema della tutela delle libertà fondamentali della persona.

Il presidente francese Sarkozy ha annunciato l’incontro
ufficiale con il premier in esilio del precedente esecutivo di Yangoon, Sein
Win, dando così un segnale molto forte alla comunità internazionale. Gli Stati
Uniti hanno annunciato l’inasprimento delle sanzioni, già in atto dal 1997.
Gordon Brown ha chiesto all’Unione europea di avvertire la giunta militare del
possibile inasprimento di sanzioni anche da parte dell’UE.