Myanmar, muro contro muro tra regime e opposizione

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Myanmar, muro contro muro tra regime e opposizione

05 Ottobre 2007

Timide prove di dialogo si sono registrate ieri tra la giunta militare e la
leader dei dissidenti, Aung San Suu Kyi. Than Shwe, in merito ad un possibile
incontro con il premio Nobel per la pace, ha posto però alcune condizioni: la
donna avrebbe dovuto abbandonare le sue “pratiche ostruttive” e il suo supporto
%0Aalle sanzioni internazionali. Oggi, come era prevedibile, è giunto il rifiuto
da parte dei dissidenti: Nyan Win, portavoce del partito d’opposizione, ha
spiegato che i militari avrebbero sostanzialmente chiesto a Suu Kyi di
“confessare reati che non ha commesso”. Il portavoce ha continuato chiedendo
che il Nobel per la pace possa rispondere pubblicamente alle richieste della
giunta: un’eventualità che difficilmente verrà concessa, nonostante le
raccomandazioni da parte degli Stati Uniti perché il governo avvii un “dialogo
significativo” con l’opposizione.

Sul fronte diplomatico, oggi, alla presenza dell’inviato Gambari, il
consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riunisce per discutere della
questione birmana: al centro del dibattito, come sempre, le misure da
intraprendere contro il regime. L’Europa starebbe valutando l’ipotesi di un inasprimento
delle sanzioni: ogni decisione in questo senso verrà presa nella riunione del
15 ottobre prossimo. L’iniziativa europea giunge in seguito all’impossibilità
di azioni condivise a livello internazionale: l’ambasciatore cinese all’Onu Wan
Guangya, infatti, ha esplicitamente dichiarato ai giornalisti che “ci sono
problemi in Myanmar, ma questi problemi sono ancora, noi crediamo,
fondamentalmente interni. Una soluzione imposta a livello internazionale non
può essere d’aiuto alla situazione… vogliamo che sia il governo (di Myanmar)
a gestire questa vicenda”. Tra gli ostruzionisti, anche Russia e India. Il
filosofo francese Bernard Henry-Lèvi, a proposito della mancata collaborazione
della Cina, ha sottolineato a gran voce “quanto sia difficile concepire che le
Olimpiadi abbiano luogo nella capitale di un Paese che incoraggia un regime il
cui sport nazionale sembra sia diventato quello di prendere al lazo, picchiare,
deportare, torturare, e alla fine assassinare uomini che hanno, come unica
arma, una ciotola di lacca nera rovesciata”.

L’Unione Europea non esclude inoltre l’invio di un proprio rappresentante
in Birmania: lo hanno ribadito ieri Javier Solana e il premier francese François
Fillon. “Domani Gambari farà il suo rapporto all’Onu. A partire da quel momento,
prenderemo decisioni, forse invieremo qualcuno”, ha detto Solana. Dietro
all’iniziativa, la volontà di Nicolas Sarkozy: il “superpresidente” francese
non riesce proprio a stare con le mani in mano, e insieme al ministro degli Esteri
Bernard Kouchner è in prima linea nella lotta a favore di sanzioni dure contro
Than Shwe e la sua giunta.

Passando al fronte della repressione, il “Times” ha recentemente pubblicato
un interessante reportage dal Myanmar. Il quotidiano londinese ha incontrato
alcuni cittadini comuni, protagonisti di azioni eroiche nel tentativo di
proteggere i monaci buddisti. Dalle case di South Okkalopa, così come da quelle
site nelle vicinanze dell’ex capitale Yangoon, “uomini, donne e bambini, a
centinaia, sono sbucati sulle strette strade che conducono al monastero”,
racconta il Times, “e hanno intrappolato militari e polizia”. Non solo bianchi
cordoni di uomini comuni hanno sfilato accanto ai monaci: molti hanno rischiato
direttamente la propria vita per impedire alle forze dell’ordine di arrestare i
bonzi, leader di una protesta in cui religione e laicismo si fondono per quel
bene supremo chiamato “libertà”.

Dall’Inghilterra giungono altre notizie interessanti, questa volta dalla
“Bbc”. La principale televisione britannica racconta di monaci nei pressi delle
stazioni degli autobus, alla ricerca di un mezzo per fuggire dai
rastrellamenti: gli autisti, però, si sarebbero rifiutati di trasportarli. I
militari, nel tentativo di dissuadere dalla fuga, hanno annunciato poi di
essere in possesso di fotografie dei leader della protesta: “Abbiamo le
fotografie. Vi arresteremo” hanno tuonato gli altoparlanti per le strade. Molti
abitanti di Pagoda Shwedagon, uno dei luoghi più sacri del paese, parlano
infatti di perquisizioni e arresti notturni in decine di case. La tv londinese
ha poi raccontato la storia di un militare che ha respinto gli ordini della
giunta, lasciando il paese prima dell’inizio della repressione violenta: “Ero a
conoscenza dei piani di colpire e sparare ai monaci”, ha dichiarato il
disertore, “e se fossi rimasto avrei dovuto obbedire a questi ordini. Ma io
sono buddista, e non volevo ferire i monaci”. Il soldato è ora alla ricerca di
un paese ospitante.

Gli arresti, intanto, continuano ininterrotti: basti pensare che appena partito
l’inviato Gambari, otto camion militari hanno lasciato la capitale carichi di
prigionieri, senza perdere un minuto di tempo. Ieri la tv di stato birmana ha
parlato di oltre 2000 persone arrestate dal 25 settembre, di cui oltre 600
sarebbero già tornate in libertà; molto diversa la versione dei dissidenti,
secondo i quali i morti sarebbero oltre 200 (10 secondo la giunta al potere),
gli arrestati almeno 6000.  Ma dove sono stati portati i prigionieri?
Questa è la domanda cruciale da porsi in questi giorni, questo quello che
pretendono di sapere tutte le organizzazioni che si occupano di diritti umani.
L’ambasciatore statunitense Villarosa, che ha inviato alcuni funzionari in
visita ai monasteri, li ha trovati vuoti o presidiati: “Il numero dei monaci per
le strade si è ridotto notevolmente. Dove sono i monaci? Cosa gli è successo?”,
si è chiesto il diplomatico. Le stesse domande si è posta Louise Arbour,
referente dei diritti umani per le Nazioni Unite, intimando alla giunta di
fornire “precise e verificabili informazioni” sul numero dei morti e le
condizioni dei reclusi.

Riguardo agli arrestati, sono in molti a parlare dell’esistenza di gulag
segreti, dove i religiosi sarebbero stati rinchiusi. Uno dei prigionieri
rilasciati ha raccontato di come i fermati vengano suddivisi nelle prigioni:
“Stanno cercando i leader delle dimostrazioni. Le persone che hanno solo
applaudito ricevono una punizione minima, forse da due a cinque anni”. Quattro
le categorie dei fermati: chi è semplicemente passato sulle strade delle
proteste, chi ha guardato, chi ha applaudito e chi vi ha preso parte. Tra i
fermati, è notizia di ieri, anche un membro delle Nazioni Unite: Mynt Ngwe Mon,
arrestato insieme a due familiari e l’autista.

Oltre alla repressione fisica, la giunta di Than Shwe starebbe mettendo in
pratica altri mezzi d’intimidazione. “Associated Press”  riporta la storia
di un dipendente del ministero dei Trasporti, il quale è stato costretto a
firmare un documento con il quale impegna sé e la sua famiglia a non dedicarsi
ad attività politiche, oltre che a non ascoltare frequenze radio straniere.
Attraverso le radio inglesi, infatti, molti birmani possono venire a conoscenza
di quello che sta accadendo nel loro paese. Altre testimonianze parlano di
estorsioni monetarie da parte delle autorità, ai danni dei negozianti: oltre al
“pizzo”, la raccomandazione di non parlare con i giornalisti stranieri.
Estorsioni di questo tipo avverrebbero anche in mezzo alle strade: i militari
fermano le macchine, guardano i documenti e a seconda della professione
chiedono al conducente una determinata quantità di soldi.

Ma per la giunta, tutto è passato. I militari hanno annunciato oggi che il
paese è tornato alla normalità dopo che l’uso “della minor forza possibile” ha
posto fine alle manifestazioni cominciate ad agosto con le proteste contro gli
aumenti del prezzo della benzina. E i morti? Sempre dieci, come il governo ha
dichiarato giorni fa. Se tutto è tornato normale, come si comporteranno con
Aung San Suu Kyi? La incontreranno, ci dialogheranno? Questo sarà il nodo
fondamentale dei prossimi giorni: la copertura mediatica della crisi birmana è
stata sufficientemente grande perché gli occhi del mondo restino puntati ancora
un po’ su quella piccola, grande dissidente.