Myanmar: Russia e Cina continuano a proteggere il regime

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Myanmar: Russia e Cina continuano a proteggere il regime

03 Ottobre 2007

Quella di ieri è stata una giornata fondamentale per la questione birmana.
L’inviato delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari, ha infatti portato a termine la sua
missione ed è ripartito nel pomeriggio. In mattinata il diplomatico nigeriano
ha incontrato il leader della giunta militare, Than Shwe, nella nuova capitale Naypydaw, e prima di lasciare
il paese ha avuto un secondo colloquio con Aung San Suu Kyi, leader
dell’opposizione e premio Nobel per la pace. Sempre più frammentarie, intanto,%0D
le notizie riguardanti la protesta degli “arancioni”: i monaci starebbero per
abbandonare la contestazione in ottemperanza alla direttive dei propri
superiori gerarchici. In ambito diplomatico, invece, prosegue il dibattito
sulle iniziative da intraprendere contro la dittatura militare: Cina e Russia,
come da copione, ostentano freddezza.

Andiamo con ordine. Ieri mattina Ibrahim Gambari ha incontrato il generale
Than Shwe, nel corso del quarto ed ultimo giorno della propria missione per
conto dell’Onu. Nulla è trapelato sul contenuto del colloquio: lo scopo di
Gambari era quello di convincere il leader della giunta a porre fine alla
repressione, facendosi portavoce del dissenso internazionale. Un comunicato
ufficiale delle Nazioni Unite parla genericamente di discussione sull’attuale
situazione in Myanmar. È lo stesso comunicato a rendere poi conto del secondo
appuntamento della giornata di ieri, quello con Aung San Suu Kyi: nessuna
informazione, ancora una volta, sul temi dibattuti con la dissidente. Gambari è
poi decollato con il suo aereo: il programma prevede per oggi un faccia a
faccia con il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong. Domani farà invece
ritorno New York: al Palazzo di Vetro lo attende il segretario generale delle
Nazioni Unite, al quale dovrà rendere conto dei quattro giorni trascorsi in
Myanmar.

Per quanto riguarda il proseguo della ribellione, le notizie sono variegate
e frammentarie. I monaci avrebbero messo un freno alla protesta. Le alte sfere
gerarchiche avrebbero ordinato di non continuare a sfidare la repressione: maggior
calma nelle strade e minore presenza di forze dell’ordine sembrano confermare questa
voce. Ieri la giunta militare ha inoltre annunciato una riduzione del
coprifuoco notturno, dalle 22.00 alle 4.00 anziché dalle 21.00 alle 5.00.
Arresti ed intimidazioni da parte della giunta continuerebbero però a Yangoon.
La “Reuters” ha sentito telefonicamente l’incaricato d’affari Usa, Shari
Villarosa: “Abbiamo sentito che gli arresti sono continuati per tutta la notte,
sino alle due del mattino. Abbiamo sentito che si tratta di militari. Non so
chi li stia facendo ma c’è gente che va in giro nel pieno della notte portando
via delle persone. La gente è terrorizzata. Questo governo mantiene il potere
con la paura e l’intimidazione e stanno tentando di intimidire le persone
perché si tengano lontane dalle strade”. “Mizzima” ha invece intervistato un
residente della capitale, secondo il quale “tanto la polizia quanto l’esercito
si possono ancora vedere nella città. Le forze di sicurezza stanno conducendo
ricerche a tappeto e interrogatori”. Se il dispiegamento delle forze
dell’ordine sta complessivamente scemando, elevato resta però lo stato
d’allerta nelle principali città.

Sul fronte della repressione, si moltiplicano dati e supposizioni. Secondo
fonti birmane e delle Nazioni Unite, 1700 arrestati – tra cui 500 monaci
buddisti e 200 donne – sarebbero inizialmente stati rinchiusi nel Government
Technical Institute di Yangoon. I monaci sarebbero stati imprigionati, nudi, in
una stanza comune senza finestre: in segno di protesta, avrebbero rifiutato il
cibo. Da fonti australiane giunge un’altra importante informazione
quantitativa: le persone uccise sarebbero almeno 30. Il ministro degli Esteri
australiano Alexander Downe, interpellato dalla radio “Abc” circa il dato
ufficiale di soli 10 morti, ha invece dichiarato che “possono essere multipli
di 10, o anche di più”. L’agenzia di stampa “Mizzima” continua intanto a
pubblicare fotografie di morti e feriti: un’immagine raccapricciante mostra il
cadavere di un monaco, gettato in una pozza fangosa, in evidente stato di
decomposizione.

Continuano incessanti, infine, i giochi diplomatici. U Nyan Win, ministro
degli Esteri birmano, ha parlato all’assemblea generale delle Nazioni Unite: i
responsabili della repressione attuata nel suo paese, secondo il diplomatico,
sarebbero dei non meglio precisati “opportunisti politici” appoggiati da “paesi
forti”. U Nyan Win ha poi messo in guardia la comunità internazionale
sull’inutilità delle sanzioni, che potrebbero solo peggiorare le cose. Per
quanto concerne le risposte concrete al regime, in prima linea c’è sempre
l’Australia. Il governo australiano ha infatti rifiutato la nomina di un
ex-militare birmano come ambasciatore del Myanmar nel proprio paese, per poi
mettere definitivamente in chiaro che “in nessuna circostanza accetteremmo come
ambasciatore un esponente del loro regime militare”. Una pratica, quella del
rifiutare un ambasciatore, desueta ma fondamentale per sottolineare che quello
della giunta al potere in Birmania “é un comportamento inaccettabile”.

Sul fronte opposto a quello dell’interventismo australiano, l’asse
Russia-Cina. Entrambi i paesi invitano il regime alla “moderazione”, ma quando
si tratta di discutere sanzioni concrete cercano di rimandare ogni decisione.
Dietro alla cautela nei confronti della giunta militare birmana, motivazioni di
carattere diverso. Primo: la Russia, ma soprattutto la Cina, è un partner
commerciale del Myanmar e non intende danneggiare il proprio commercio.
Secondo: i due paesi vogliono fare da contrappeso all’interventismo europeo ed
americano, in un’ottica di equilibri internazionali. Terzo: quello che è
successo in Birmania contro la giunta militare potrebbe accadere un giorno in
Tibet, con un’altra insurrezione di monaci buddisti – questa volta contro il
governo cinese –. Un’eventualità di cui, a pochi mesi dalle Olimpiadi, il
gigante asiatico non vuole neppure sentir parlare.