Myanmar: spuntano i forni crematori, ma all’Onu è paralisi
08 Ottobre 2007
Dove sono finiti i monaci? Quanti sono i morti? La risposte a queste
domande stanno forse nelle agghiaccianti testimonianze che filtrano in queste
ore dal Myanmar. A supportare l’ipotesi di religiosi schiacciati e poi cremati
in massa sono una fotografia, inviata a “Repubblica” da un
giornalista birmano, e alcune testimonianze raccolte sul posto dal londinese
“Times”.
“Le notizie e le immagini dei media
hanno mostrato al mondo il vero volto dei militari killer birmani. Ma ora che
le manifestazioni sono state represse, le notizie censurate e le macchine
fotografiche vietate, non crediate che le uccisioni e le torture siano
finite…”: comincia così la lettera ricevuta dal quotidiano
“Repubblica”, accompagnata da una fotografia di un monaco buddista
che sta per essere schiacciato da un automezzo presumibilmente governativo.
L’attendibilità assoluta non è garantita: i dissidenti potrebbero aver scelto
di utilizzare la pratica del fotomontaggio per tenere alta l’attenzione
mondiale. Il quotidiano, che ovviamente non rivela il nome della fonte,
scommette però sulla sua attendibilità. E le altre foto che nei giorni scorsi
hanno fatto il giro del mondo – l’uccisione del fotografo giapponese e il
cadavere di un religioso gettato in una pozza – lasciano pochi dubbi sulle
pratiche di repressione attuate dal regime di Than Shwe.
Secondo l’anonimo giornalista birmano, i
monaci (così come i dissidenti civili) verrebbero gettati a terra ancora
moribondi, per poi essere schiacciati sotto “autotreni a dieci
ruote”. A dirci poi che ne è dei corpi, ci pensa il “Times” di
ieri: “l’esercito birmano ha bruciato un indeterminato numero di cadaveri
in un crematorio aperto da guardie armate nel corso degli ultimi sette
giorni”. Del luogo delle cremazioni, sito nel nord-est di Rangoon, hanno
parlato numerosi residenti, testimoni dei “fuochi”: a insospettirli,
il continuo via vai notturno di camion militari e il fumo proveniente dagli
edifici. Secondo la popolazione locale, le cremazioni sarebbero cominciate la
notte del 28 settembre: solo ventiquattr’ore dopo l’apertura del fuoco contro i
manifestanti da parte della giunta militare. Le cremazioni sarebbero poi
continuate ad intervalli regolari. Ad oggi, i taxi si rifiutano di portare stranieri
nell’area.
La giunta militare, intanto, ostenta
sicurezza. Ieri hanno annunciato di aver confiscato armi nei monasteri, ma sono
ormai in pochi a sfidare la repressione per strade: le misure di sicurezza,
nell’ex capitale Rangoon, sono state fortemente ridimensionate. In un clima di
maggiore tranquillità, la giunta può procedere tranquillamente con
interrogatori e arresti: secondo fonti birmane, ieri sarebbero stati arrestati
78 sospetti, mentre oltre mille sarebbero stati rilasciati da parte delle autorità.
La gente ha paura, e non lo nasconde più: mentre internet resta ancora isolato,
sfidare la giunta significa ormai andare incontro alla morte o a una
lunghissima detenzione.
Una calma apparente che fa a pugni con
le dichiarazioni dei leader della protesta. Ancora venerdì e sabato, erano in
molti a proclamare una lotta “fino alla morte” contro il regime. Gli
stessi leader che hanno poi attaccato senza mezzi termini l’Onu e il suo
inviato Gambari, colpevoli a loro dire di eccessiva accondiscendenza nei
confronti di Than Shwe e dei militari al potere. “Ci avevamo sperato
molto”, ha dichiarato un’attivista riferendosi alla visita dell’inviato
nigeriano, “e quello che sentiamo è che non sia servito a nulla. Avrebbe
dovuto visitare i luoghi della dimostrazione – come Pakkoku e Shwedagon Pagoda.
Avrebbe dovuto visitare la prigione Insein, così avrebbe visto la verità”,
ha continuato, per poi rispondersi sconsolata che “abbiamo fatto molti
sacrifici e molte persone sono state uccise, e non è giusto per lui venire e
vedere solo quello che la giunta vuole fargli vedere”.
Sono in molti, effettivamente, a
sottolineare come Gambari sia stato una sorta di “ostaggio” della
giunta per ben quattro giorni: uniche concessioni, i due incontri con la leader
dell’opposizione Aung San Suu Kyi. Che la missione sia stata un fallimento?
Tornato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Gambari ha denunciato
come un ritorno alla status quo precedente alle dimostrazioni sia
“inaccettabile”: il Consiglio ha stabilito che “è impossibile
tornare alla situazione precedente: vi sono questioni socioeconomiche e
politiche che vanno affrontate”, rimanendo in attesa di “risposte
concrete” da parte della giunta. La stessa giunta che, sedate le
manifestazioni, schiaccia e brucia le prove della repressione. “Esiste
un’apertura al dialogo, ma serve un vero dialogo che conduca ad una
riconciliazione nazionale, un dialogo serio con un calendario”, ha
concluso Gambari: un dialogo, quello tra giunta e opposizione, frenato però da
troppe condizioni inaccettabili. Altri hanno provato a parlare con Than Shwe:
su tutti, l’ambasciatore americano Villarosa, che ha poi bollato l’incontro
come “inutile”.
L’unica via percorribile resta ancora
quella pressione internazionale. Nonostante il governo indiano abbia richiesto
ufficialmente la liberazione del Nobel Aung San Suu Kyi, dimostrando una
maggiore apertura rispetto al passato, l’opposizione della Cina all’imposizione
di sanzioni internazionali resta un ostacolo insormontabile. Ecco allora
l’apertura di singoli fronti d’iniziativa. Al Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna – i tre paesi occidentali
maggiormente esposti contro il regime birmano – hanno fatto circolare una bozza
di risoluzione, che verrà discussa oggi: “Il Consiglio di sicurezza – si
legge nel comunicato – condanna la repressione violenta di manifestazioni
pacifiche da parte del governo della Birmania”, così come l’uso della
forza contro personalità religiose. Se anche la bozza dovesse essere approvata
dagli otto membri del Consiglio, non avrebbe alcun valore legale: insomma, un
semplice avvertimento. Gli Stati Uniti hanno poi fatto sapere di essere
disposti ad attuare un embargo di armi nei confronti del regime, mentre il
premier inglese Gordon Brown ha affermato che “il mondo non ha
dimenticato, e non dimenticherà, il popolo birmano”, manifestando poi
seria preoccupazione per “le centinaia, se non migliaia, di bonzi o di
altre persone che semplicemente sono scomparse”.
Molte belle parole e molta solidarietà. Ma la
sensazione è che dopo lo sgomento, l’irritazione e la vicinanza al popolo
birmano, il mondo debba decidersi a fare un passo avanti: sanzioni ed embargo
sono ormai una necessità impellente, purtroppo incompatibile con i tempi e i
modi di queste Nazioni Unite.