Naghib Mahfuz, l’ultimo cantore d’Egitto
04 Ottobre 2008
di Carlo Roma
Naghib Mahfuz, cantore delle meraviglie e delle contraddizioni del Cairo e dell’Egitto, ha ottenuto il Nobel per la letteratura nel 1988. E’ stato il primo intellettuale arabo a cui l’Accademia di Svezia ha assegnato l’alto riconoscimento. L’Occidente lo ha accolto tra i grandi della letteratura mondiale consegnando la sua opera al patrimonio comune del mondo. Il premio non gli è stato attribuito per caso: lo scrittore egiziano ha incarnato gli umori più profondi del suo popolo, di cui ha messo in scena le speranze descrivendone le paure e le antiche tradizioni. Ha disegnato un microcosmo ricco e vario, pieno di colori, profumi ed atmosfere. Ha rappresentato, in tono lieve e comprensibile, il Cairo, la metropoli in cui è nato e dalla quale non si è mai allontanato. Mahfuz ha basato i suoi libri sull’attenta osservazione della realtà che lo circondava spostandosi soltanto tra i vicoli della città. Nel corso delle sue passeggiate coglieva lo spirito di un popolo aggrappato alle sue usanze e legato al territorio in cui risiedeva. Mahfuz non ha mai superato i confini dell’Egitto. Il suo radicamento nel paese dei Faraoni era forte, capace di appagare in pieno la sua creatività. Si è sempre sentito unito alla sua gente che considerava la fonte principale dell’ispirazione e delle immagini che hanno costellato i suoi romanzi. Eppure, la vita di Mahfuz non è legata soltanto alla sua vasta produzione letteraria. E’ stato anche un testimone libero e senza paura e non ha mai smesso di manifestare il suo pensiero e le sue idee. Ha rischiato in prima persona tanto che, il 14 ottobre del 1994, la lunga mano della Jihad lo colpì a sangue freddo. Un attentatore lo aggredì vicino casa ferendolo in modo molto grave. Gli estremisti ritenevano che uno dei suoi romanzi più contestati, "Il rione dei ragazzi", dato alle stampe nel 1959, offendesse l’identità islamica. Mahfuz era colpevole e andava punito con la massima severità. Il suo caso precorre i tempi mettendo in risalto le dinamiche di una società difficile, chiusa al confronto e alla circolazione delle idee. Lo scrittore non si lasciò intimidire lavorando come sempre. Rifiutò la protezione offerta dallo Stato sostenendo che la polizia "potrebbe disturbare la mia vita e sconvolgere le mie abitudini quotidiane". Continuò a vivere al Cairo proseguendo il suo impegno per rappresentare il volto migliore dell’Egitto e della sua gente.
Per Mahfuz, d’altra parte, l’Egitto non era soltanto la nazione nella quale aveva avuto la fortuna di nascere. In realtà, si sentiva unito al destino millenario del Cairo pensando di essere il frutto di una cultura sovrapposta e stratificata. Si sentiva l’erede dell’antica civiltà delle Piramidi, nata 7 mila anni fa. Affermava che nelle sue vene scorreva il sangue dei faraoni, punto di riferimento per un mondo lontano ma mai dimenticato. Al tempo stesso, Mahfuz non respingeva le origini islamiche. Si sentiva uno dei tanti figli del Profeta Maometto e non rinnegava la sua appartenenza ad una religione presente ovunque. La sua vena creativa ha tratto linfa vitale dal clima vibrante che assaporava nelle moschee del suo quartiere. La sua esistenza è stata formata dalla cultura araba di cui si è fatto interprete e difensore.
L’obiettivo che ha perseguito nelle sue opere è stato proprio quello di evocare i vicoli che circondano la moschea del quartiere al-Gamaliyya in cui ha visto la luce nel 1911. Vicoli che hanno rappresentato l’ambiente ideale nel quale ha costruito i suoi tanti personaggi. Uomini e donne uniti in modo indissolubile alle loro botteghe e alle loro consuetudini pronti ad agire soltanto in virtù dell’antico legame con l’Islam. Personaggi che hanno dato luogo, ad esempio, al romanzo "Vicolo del mortaio", pubblicato nel 1947 ed edito in Italia dalla Feltrinelli. Gli equilibri, i giochi di forza, l’appartenenza agli ideali suggeriti dalla fede, costituiscono gli elementi più significativi del racconto. Una storia che si sviluppa nei luoghi di ritrovo, nelle strade appartate, nelle case in cui si consumano gli intrighi e i piccoli drammi di tutti i giorni. Drammi connessi all’onore della famiglia che, agli occhi dei vicini, non deve essere mai messo in discussione. Non solo. Nei libri di Mahfuz abbonda la lotta dei suoi personaggi contro la povertà, in una gara alla sopravvivenza che non esclude alcun tipo di espediente. I suoi protagonisti si inventano strane attività come quella di un chirurgo che, per pochi soldi, procura delle mutilazioni definitive a degli aspiranti mendicanti da strada. Nel mondo ideato dal premio Nobel tutto si svolge all’ombra del potere civile e religioso. Nel romanzo "Notti delle mille e una notte", pubblicato nel 1982, Mahfuz mette in scena il ruolo dell’autorità nella comunità. Nel contesto islamico il potere è esercitato dalla autorità religiosa e da quella civile che plasmano ogni scelta, ogni possibilità e ogni prospettiva. Nel racconto il popolo è schiacciato dalla pressione asfissiante del sultano Shahriyar che non esita a punire vigorosamente chi non rispetta le sue leggi. Allo stesso modo il popolo è chiamato a rispettare i principi islamici che non ammettono errori.
Tornare a leggere Mahfuz, insomma, significa familiarizzare con una civiltà sempre più vicina con la quale è necessario fare i conti. Una cultura che egli presenta bene nella sua fatica più impegnativa ed interessante, "La trilogia del Cairo", pubblicata in origine in arabo nel 1956 – 1957. Si tratta di un vasto affresco che il Nobel ha definito "l’unica delle mie opere in cui ho messo parte del mio spirito e del mio cuore". Una grande saga che inquadra la vita brulicante del Cairo in una trama sapiente piena di intuizioni, avvenimenti curiosi e divertenti. La narrazione ruota intorno ad una grande famiglia della capitale che Mahfuz segue dai primi anni del Novecento fino al 1952. La descrive dai tempi dell’agiatezza fino a quelli del decadimento economico. Una parabola discendente che, forse, coincide con la storia dell’Egitto e dell’universo islamico. Un itinerario che, nonostante tutto, non ha mai demoralizzato Mahfuz. Nel suo discorso letto l’otto dicembre del 1988 all’Accademia di Svezia, in occasione della consegna del Nobel, spiegò che il suo idioma era il vero vincitore del premio. "Perciò -disse – lasciate che la sua melodia fluttui per la prima volta nella vostra oasi di cultura e civiltà". Mahfuz è stato ottimista fino alla morte arrivata nel luglio del 2006 a 94 anni. Credeva che la convivenza tra l’Oriente e l’Occidente, che per molti secoli si sono dati battaglia, avrebbe trovato una soluzione positiva. "Malgrado tutto ciò che accade nel mondo – scriveva – io sono ottimista fino alla fine. Non dico con Kant che Dio sarà vittorioso nell’altro mondo. Dio è vittorioso tutti i giorni". Parole di speranza per un presente incerto e per un futuro nebuloso e fragile.