Napoli e i tradimenti del buongoverno
30 Novembre 2008
Il libro che qui segnaliamo (Adolfo Scotto di Luzio, Napoli dei molti tradimenti, Bologna il Mulino, 2008, pp. 123, € 10,00) si presenta come il bilancio autobiografico di un quarantenne che riguarda al proprio passato e riflette criticamente sul come eravamo. Il racconto di una giovinezza avventurosamente curiosa e un po’ confusa. Senza perdere mai la cifra letteraria che lo caratterizza stilisticamente, cifra che filtra anche le forti risonanze emotive, man mano lo scritto si articola come una riflessione politica. Una riflessione in cui il ripensamento individuale si sovrappone quasi perfettamente a un cambiamento epocale nei canoni di riferimento.
Per procedere con ordine, senza confondere i piani dell’analisi, converrà in prima battuta analizzare i riferimenti letterari. Al di là di una scrittura assai elegante ma senza affettazione, che appare il naturale portato di una coltivata capacità espressiva, due sono le ascendenze più immediatamente percepibili. Anzitutto Flaubert. Il racconto di una giovinezza attraversata da passioni politiche vissute istintivamente più che meditate razionalmente fa venire in mente subito l’Educazione sentimentale. E in un inciso riepilogativo, senza nominare il romanzo famoso, se ne evoca una scena quando Federico e Deslaurieirs ricordano i tempi passati. Tuttavia, il capolavoro francese è una sorta di ascendente lontano, che si avverte in controluce. Un secondo e più preciso riferimento è quello a Raffaele La Capria. Non solo perché il nome di La Capria viene esplicitamente evocato, ma per una ragione più essenziale. I molti tradimenti subiti da Napoli è un’immagine che riecheggia Ferito a morte, il romanzo più noto dello scrittore napoletano. A conferma di un rapporto con la città di origine che non può essere sereno, attraversato com’è da una pulsione contraddittoria di attrazione e distacco. Come a significare che la piccola patria napoletana non può essere vissuta con indifferenza, ma con struggimento o rancore.
La patina letteraria, però, se rende gradevole la lettura non è la cifra ultima del libro che ha un suo respiro di denuncia politico-culturale. In questione è la sinistra napoletana e meridionale. Tradizionalmente la sinistra meridionale si richiamava ad una visione classista e progressiva dello sviluppo sociale. Il riscatto dell’arretratezza del Mezzogiorno era parte di quello che la classe operaia e il suo partito avrebbero dovuto apportare alla società intera. Incasellata in questo contesto più ampio anche la questione meridionale, denunciata dagli scrittori liberali all’indomani dell’unità, acquistava il suo vero significato. Quando, sotto la spinta di una profonda trasformazione sociale, questa visione tramonta non si fa luogo a una compiuta revisione ideologica, per produrre una nuova sintesi, ma si ripiega su di un confuso amalgama che si può definire come una sorta di populismo mediterraneo. Il mito della spontaneità popolare, per definizione portatrice di istanze positive, si collega al fantasma continuamente evocato, ma sempre indefinito nei suoi contorni, di una vocazione mediterranea della ex capitale e del meridione d’Italia. La giovinezza di Scotto di Luzio coincide con questo passaggio epocale. Così nel suo processo di formazione, egli assorbe la vulgata ideologica corrente. Con il passar del tempo però cominciano a maturare i dubbi. Il mito della innata virtù del popolo non sempre coincide con la realtà. Nella plebe partenopea si ritrovano comportamenti illegali, quando non delinquenziali. Soprattutto si riscontra un radicato rifiuto delle regole, un’insofferenza a quel disciplinamento sociale spontaneo che altrove si chiama civiltà. Quanto al mediterraneo più che un volano per la crescita economica rimane un riferimento obbligato per “caratterizzare l’immagine della città”.
D’altronde, ed è questo il punto essenziale, il populismo mediterraneo non esprime solo la banalità geopolitica di un meridionalismo straccione, ma diventa lo strumento ideologico con cui si è legittimato un quindicennio di gestione del potere locale. Alla descrizione di questa ideologia di risulta è dedicato buona parte del volume. Un’analisi che non procede per quadri analitici definiti, bensì per immagini, frammenti, sovrapposizioni, ricordi, che vanno però a comporre un quadro sempre più compiuto. Quello di una visione preventivamente autoassolutoria ancor prima che sbagliata nella quale si sbiadivano i confini della legalità e le linee del conflitto politico. La cartina di tornasole di questo equivoco è stata l’interminabile emergenza dei rifiuti. Sulle cataste di spazzatura finiva la presunzione d’innocenza ontologica della classe politica di centro-sinistra, che aveva tenuto lunghi anni di cattiva amministrazione al riparo da una disamina critica serrata.
Il saggio, però, non si riduce a un esercizio sottile di autocritica, ma ha un significato più ampio. Se dovessimo definirlo con una formula dovremmo parlarne come di una denuncia delle illusioni sulla politica postmoderna. Oggi come ieri, lungi dal ridursi a una questione d’immagine, la buona politica è fatta di soluzioni efficaci da valutare con sano empirismo.