Napolitano in politica estera preoccupa il Corriere?

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Napolitano in politica estera preoccupa il Corriere?

08 Luglio 2011

Qualche giorno fa sul Corriere della Sera, nella rubrica delle lettere di Sergio Romano, è apparso un botta e risposta di notevole interesse. Mi era sfuggito e mi è stato opportunamente segnalato. In effetti anche solo il titolo avrebbe dovuto richiamare la mia attenzione: “Il governo che non volle fare il postino del Quirinale”. Oibò, di quale governo si tratta?

Rispondendo a un lettore, Romano rievoca una vicenda scabrosa riguardante il governo di Antonio Segni e l’allora presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. La riassumo per sommi capi (il testo integrale della lettera è pubblicato più avanti): si era all’indomani della fallita operazione anglo-francese per la riconquista del Canale di Suez che aveva visto gli Stati Uniti schierati contro le potenze ex-coloniali. Gronchi vide in quella vicenda un varco per accrescere l’influenza dell’Italia nel Mediterraneo e per stabilire un legame strategico con gli Usa e con i paesi della sponda nordafricana. Scrisse così una lettera da pari a pari al presidente Eisenhower in cui condannava l’iniziativa anglo-francese e proponeva un patto di consultazione privilegiato tra Usa e Italia sugli equilibri della regione. Gronchi inviò la lettera al ministero degli Esteri perché fosse inoltrata a Washington, ma alla Farnesina la missiva venne letta e sottoposta all’attenzione del presidente del Consiglio, il quale senza esitare la fece a brandelli. Concludendo la sua risposta, Romano sembra fervidamente parteggiare per il governo di allora che “non intendeva farsi espropriare delle proprie competenze e permettere che l’Italia diventasse surrettiziamente una repubblica presidenziale”.

Chissà se qualche campanello di allarme è squillato anche nel Quirinale di oggigiorno. Dove Giorgio Napolitano è particolarmente attivo sul fronte della politica estera, spesso anche in contrasto con le inclinazioni del governo, come le vicende libiche hanno reso più che evidente. Non solo, proprio il rapporto particolarmente cordiale che il capo dello Stato sembra avere con il presidente americano Barack Obama sembra essere chiamato in causa tra le righe di quella risposta. Molti commentatori in passato avevano osservato che gli incontri tra Obama e Napolitano avevano lo spessore politico e diplomatico di incontri tra capi di governo, con poteri e prerogative simili. E anche se non in modo esplicito la cosa aveva provocato qualche alzata di sopracciglio sia a Palazzo Chigi che alla Farnesina.

Anche l’Occidentale ne aveva scritto (https://www.loccidentale.it/node/105816) ma che ora l’autorevolissimo Sergio Romano, seppure in modo obliquo e rievocando una vicenda ignota ai più, sembri adombrare lo stesso problema ci pare significativo. Anche perché, se fossimo dietrologi, si potrebbe anche considerare anche qualche scenario più ampio, dove l’Italia è da tempo terra di conquista di poteri e interessi stranieri, in cui francesi e americani, contrapposti, hanno parte cospicua. Si potrebbe quasi pensare che tra Quirinale e Solferino si stia svolgendo una guerra di posizione sotterranea a favore dell’uno o dell’altro schieramento, che qualche volta affiora dove meno te lo aspetti. Ma ovviamente qui non siamo dietrologi.

 

IL GOVERNO CHE NON VOLLE FARE IL POSTINO DEL QUIRINALE

Nei miei studi per un esame universitario mi sono imbattuto in un episodio che mi ha particolarmente incuriosito. Pochi mesi dopo la crisi di Suez (la fallita spedizione anglo-francese contro l’ Egitto per la riconquista del canale, nazionalizzato da Nasser), il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi scrisse una lettera riservata al presidente Eisenhower in cui propose «consultazioni speciali tra i due Paesi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente», ribadendo nuovamente il suo protagonismo in politica estera e la sua vocazione «neo-atlantica». Senonché la lettera venne bloccata al ministero degli Esteri dal ministro Gaetano Martino e non giunse mai al presidente americano. Mi chiedo perché mai Martino, in accordo con il presidente del Consiglio Antonio Segni, abbia compiuto un simile gesto, generando inoltre un grave scontro istituzionale. Roberto Pierri.

Caro Pierri, per Gronchi e altri uomini politici italiani lo scacco anglo-francese a Suez fu una buona notizia. Segnava il declino delle vecchie potenze coloniali nel Mediterraneo e dimostrava che gli Stati Uniti non erano disposti a tollerare nuove avventure imperiali. Irrequieto, ambizioso e desideroso di maggiore spazio per sé e per il suo Paese, Gronchi vide nell’ umiliazione di Londra e Parigi un’occasione per l’Italia. Non sognava nuove colonie (quei tempi erano ormai finiti), ma pensava che l’Italia avesse le carte in regola per diventare un buon partner economico e una specie di fratello maggiore del mondo arabo sulla via dello sviluppo e della modernizzazione. In questo spirito e con queste intenzioni, Gronchi approfittò di una lettera del presidente Eisenhower che gli era stata recapitata dal vicepresidente Richard Nixon durante una breve visita a Roma nel marzo 1957. Anziché limitarsi a qualche espressione di cortesia, come usa nei messaggi protocollari fra capi di Stato, Gronchi rispose al presidente americano che l’Italia era stata colta di sorpresa dalla spedizione di Suez. Deplorò il ricorso alla forza, accennò agli interessi italiani nel Mediterraneo, propose che Italia e Stati Uniti avviassero una sorta di consultazione bilaterale privilegiata sui problemi della regione e sul modo in cui affrontarli. La lettera fu mandata al ministero degli Esteri che avrebbe dovuto inoltrarla. Ma a Palazzo Chigi, allora sede del ministero, la lettera venne bloccata. Anziché inviarla a Washington, il segretario generale Alberto Rossi Longhi la fece leggere a Gaetano Martino e questi la dette ad Antonio Segni, presidente del Consiglio. Per Martino e Segni la lettera era doppiamente pericolosa. In primo luogo era uno schiaffo alla Francia (con cui avevamo appena firmato i trattati di Roma per la creazione del Mercato comune) e uno sgarbo all’Inghilterra. In secondo luogo affermava implicitamente il principio che il presidente della Repubblica aveva il diritto di fare la politica estera nazionale. L’avvio di un concreto dialogo politico fra l’uomo del Quirinale e quello della Casa Bianca avrebbe dimostrato che il primo aveva, in materia di politica internazionale, gli stessi poteri del secondo. Quando decisero d’impedire l’invio della lettera, Segni e Martino sapevano di potere contare sull’approvazione di una classe politica, fra cui buona parte della Democrazia cristiana, che non intendeva lasciarsi espropriare delle proprie competenze e permettere che l’Italia diventasse surrettiziamente una repubblica presidenziale.

Sergio Romano