Caro Direttore,
sono appena rientrata da una gita nel Suffolk, a caccia di storie di pirati. Stimolata dalla divertente lettura di Plum Island, un romanzo di Nelson DeMille, ho trascorso gli ultimi dieci giorni a sfogliare libri sulla storia della pirateria e visitare i loro porti sicuri nei luoghi dei primi coloni americani. Pochi sanno che il confine tra lecito e illecito nella pirateria era labile, vi erano dediti cittadini dall’inappuntabile reputazione che su mandato del governo abbordavano navi battenti bandiera nemica e sequestravano tutto il carico.
Qui, nell’isola di Gardiners il Capitano William Kidd aveva nascosto il suo tesoro, qui era ormeggiata la sua nave, la Adventure Galley, con le fauci dei suoi 34 cannoni spalancate. Storie che ci riportano alla grande letteratura d’avventura, a Robert Louis Stevenson, all’Isola del Tesoro, alla gioia dell’infanzia.
L’aura leggendaria di queste storie con mio gran dispiacere s’è ingrigita stamattina alla lettura dell’Occidentale. L’Italia è un paese che non cura le sue memorie, così finiamo per conoscere (senza riconoscere) le gesta di pirati contemporanei senza grandezza, una classe di capitani per niente coraggiosi. Leggo le storie che riguardano il signor GiulianoTavaroli, quelle del signor Marco Tronchetti Provera e del suo predecessore alla Telecom, signor Roberto Colaninno. Vedo le difficoltà del signor Franco Bernabè nel rimettere in sesto una grande e fragile azienda del nostro paese. Poi osservo la planata sempre più incerta di Alitalia, il presidente Berlusconi indossare una tuta da palombaro – ah, ancora echi d’avventura, Jules Verne – per cercare fra gli abissi imprenditoriali del Belpaese un gruppo di investitori italiani disposto a rischiare, a credere nell’Impresa. Osservo la quasi totale assenza di italiani nella grande distribuzione, la rinuncia a partecipare al business globale del turismo e degli alberghi di lusso, guardo le fatiche di Sisifo del signor Sergio Marchionne (nome italiano, passaporto dei quattro cantoni) nel tenere in piedi la Fiat, sento lo sciabordio di altri bastimenti prepararsi all’assalto della nostra cantieristica.
Cronache di piccolo cabotaggio che confermano la mia disillusione sul patriottismo italiano. Non si vede neppure l’ombra di una nave corsara battente bandiera tricolore che voglia dar l’assalto con i suoi uomini e le sue armi. C’è una rumorosa assenza che nessuno sembra sentire: quella degli imprenditori italiani. Dove sono? L’estate sono impegnati a fare rotta verso spiagge e isole senza più charme, improvvisano rendez-vous con gommoni poco istituzionali, veleggiano su stock option e dividendi che non rispecchiano né la capitalizzazione né i risultati aziendali. Non si segnalano grandi rotte tracciate per il futuro. Ho letto con grande divertimento una dichiarazione della signora Emma Marcegalia di fronte al crollo della produzione industriale: “Siamo molto preoccupati”. Oh, davvero? Qual sbaffo di rossetto… forse dal presidente degli industriali ci s’attende qualcosa in più. Qualificarsi come imprenditori significa rischiare capitale proprio non dragare denaro pubblico. Dov’è Luca Cordero di Montezemolo? D’industria sapeva poco, ma almeno aveva conoscenza del mondo delle corse e indossava delle splendide giacche.
Che ne è, amici dell’Occidentale, delle magnifiche privatizzazioni prodiane e uliviste? E di quelle annunciate dal centrodestra? Liquidazioni da ancien regime che non hanno ridotto il debito pubblico. Certo, hanno dato un po’ di allure a basso costo a signori senza avvenire e relative signore senza partito, ma hanno tolto l’industria italiana dalla business community internazionale, spolpato le aziende del proprio avvenire e lo Stato dei suoi pezzi utili per giocare sulla scacchiera mondiale. Leggo delle intercettazioni in cui era impegnato il signor Tavaroli, del suo affanno per tracciare i movimenti di persone che a Wall Street e a Hong Kong nessuno conosce. Che delusione. Usare un apparato così potente per filtrare le assunzioni in portineria. Ai tempi della Fiat del ragionier Vittorio Valletta il servizio segreto interno era discreto, non portava vistosi orologi e cravatte improbabili, durante il periodo del terrorismo ha reso un servizio alla nostra democrazia in bilico. Lo stesso può dirsi dell’apparato della vecchia Sip, omini in grigio che proteggevano le comunicazioni del Paese e ascoltavano le cornette giuste senza fare rumore. Apprendo delle preoccupazioni del signor Tronchetti per l’assenza di buoni contatti dopo il regime change berlusconiano, e sorrido nell’immaginare le fibrillazioni dell’establishment, parola che pensando all’Italia mi pare una stecca penosa in un concerto da cameretta. Né razza padrona né razza corsara, non si vede all’orizzonte alcun bastimento italiano che incuta timore e rispetto.
Ora voltate lo sguardo verso Parigi, osservate il signor Nicolas Sarkozy. Ha impalmato un’affascinante moglie italiana, Carla Bruni, della cui naturale eleganza fa biglietto da visita presso le corti di tutto il mondo. Con un tocco di classe fa impallidire la famiglia Windsor, festeggia con lei il 14 luglio, con lei apre tutte le porte della diplomazia e mette in riga tutte le feluche e si preapra a liquidare le vecchie idee del generale Charles De Gaulle per comandare la Nato. Prima guarda gli occhi lei, poi lancia il suo sguardo di falco sui mercati emergenti e lancia l’Unione del Mediterraneo, un’idea del futuro, la visione a lunga gittata di un paese. Sventola una bellezza nata in bianco rosso e verde, ma canta e parla francese per l’avvenire dei francesi, veste ed esibisce Dior e Chanel, rigorosamente maison francaises.
Ecco l’unico pirata del Mediterraneo che ha un’idea di Europa. E’ sul ponte del Soleil Royal da 104 cannoni, si chiama Sarkozy e nei suoi occhi e nel suo sorriso quando guarda estasiato la sua consorte, possiamo leggere il nostro piccolo destino di italiani senza capitani coraggiosi: saremo legati per sempre a qualcun altro, ma senza condividere i piaceri del letto e la complicità dell’amore. Saremo esibiti non come partner per sempre ma come preda per l’eternità.