Negazionismo senza frontiere: se il genocidio del Ruanda viene mistificato da una serie tv

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Negazionismo senza frontiere: se il genocidio del Ruanda viene mistificato da una serie tv

21 Febbraio 2019

In questi giorni Netflix ha annunciato una miniserie di 8 episodi, Black Earth Rising, incentrata sul dramma del genocidio ruandese. Sarebbe una notizia da salutare con entusiasmo, soprattutto se consideriamo che questa vicenda qui in Europa non è ben conosciuta dal grande pubblico e che, al di là delle canoniche commemorazioni annuali, spesso – così remotamente confinata com’è “alle falde del Kilimangiaro” – è avvolta in una nebbia di ignoranza e di approssimazione. E quindi, potremmo dire, che c’è di meglio di una bella serie televisiva, di quelle che appassionano e nello stesso tempo trasmettono la conoscenza di fatti atroci e la consapevolezza morale della loro gravità? La storia recente del Ruanda non è semplice. La divisione tragica tra le due etnie Tutsi e Hutu ha molte cause, che per i più sono legate al periodo coloniale e a stratificate rivalità tra i due gruppi etnici, presenti anche in Burundi e in Uganda. La rivalità, con fasi alterne di predominio, ha segnato tutta la storia postcoloniale dell’area: la si può approfondire anche a partire dalle voci delle enciclopedie in linea, avendo l’accortezza di seguire filoni documentali accurati, perché la narrazione ha tuttora aspetti controversi.

Di fatto i Tutsi erano stati estromessi dal potere dagli Hutu che costituivano l’80% della popolazione e che, dalla rivoluzione del 1959, detenevano completamente il potere. L’evento che fece precipitare la situazione fu l’abbattimento dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana il 6 aprile 1994. Subito dopo cominciarono i massacri della popolazione tutsi e di una parte di quella hutu, ad opera della Guardia Presidenziale e dei gruppi paramilitari Interahamwe e Impuzamugambi, con il supporto dell’esercito governativo. Il segnale dell’inizio delle ostilità fu dato dalla radio RTLM che invitava, per mezzo dello speaker Kantano, a seviziare e ad uccidere gli “scarafaggi” tutsi. I massacri ebbero termine nel luglio 1994 con la vittoria dell’RPF (Fronte Patriottico Ruandese).

In quei 100 giorni vennero uccise sistematicamente (a colpi di arma da fuoco, di machete e di bastoni chiodati) almeno 500.000 persone. Le stime sul numero delle vittime sono tuttavia cresciute fino a raggiungere cifre dell’ordine di circa 800.000 o 1.000.000. Per avere un’idea delle dimensioni di questo genocidio bisogna ricordare che il Ruanda aveva allora circa 7 milioni di abitanti. Ci furono molti profughi, in Belgio, Francia, America e – in numero minore- anche in Italia.

La storia del genocidio ruandese era già stata trattata nel cinema: basta ricordare Hotel Ruanda, del 2004. Ma ce ne sono anche altri, e perfino una pièce teatrale. La serie Netflix appena sbarcata, prodotta dalla BBC, si presenta con una fisionomia particolare: racconta la storia di Kate Ashby, una giovane sopravvissuta al genocidio che nel corso della storia si rende conto di essere, in realtà, una sopravvissuta a un massacro commesso dal Fronte patriottico ruandese (RPF), cioè i tutsi che posero termine al genocidio. Il regista (e scrittore) Hugo Blick ha invocato il diritto di un artista di far luce su aspetti trascurati della storia recente del Ruanda, cioè il fatto che l’RPF abbia a sua volta commesso delle efferatezze.

Tuttavia questo bilanciamento mediatico tra le centinaia di migliaia di vittime deliberatamente massacrate con un piano predisposto da tempo e alcuni eccessi commessi da un esercito di liberazione in guerra ha fatto indignare le associazioni dei sopravvissuti e ha dato luogo ad alcuni interventi circostanziati, come quelli di Laetitia Tran Ngoc,”researcher specializzata in Africa centrale e orientale con sede a Bruxelles”, su Huffingtonpost.uk dell’8 febbraio e di Jessica Gérondal, “militante afrofemminista panafricanista” su Mediapart dell’11 febbraio. Ambedue hanno sottolineato il fatto che la libertà artistica non può arrivare a ribaltare lo schema fondamentale di una vicenda, con la scusa di indagarne un lato nascosto e minore.

Abbastanza provocatoriamente Laetitia Tran Ngoc nel suo articolo si chiede: “Possiamo solo immaginare l’indignazione che avrebbe sollevato una serie contemporanea che utilizza un approccio simile per l’Olocausto? Se la BBC avesse deciso di trasmettere la storia di una donna che, avendo creduto per tutta la sua vita di essere una sopravvissuta dell’Olocausto, scoprì che era, in effetti, una delle vittime degli attacchi delle forze alleate che il popolo tedesco soffrì durante la seconda guerra mondiale?”. Chiosando la researcher, per la verità il paragone più calzante non sarebbe tanto con la vittima di un bombardamento alleato, quanto con la vittima di un gruppo di resistenza ebraico, immaginando una situazione del genere in una fiction, perché – si sa – in realtà purtroppo la storia non ci ha consegnato nessuna testimonianza di resistenza armata alla shoah. E, assai polemicamente, Jessica Gérondal agggiuge: “Il privilegio bianco è anche arrogarsi il diritto di prendere una storia traumatica, modificarla, deformarla e esotizzarla a modo proprio con lo scopo di ricavarci tanti soldi. Prendete in più una piattaforma massicciamente seguita come Netflix e il gioco è fatto”.

Possiamo dire che hanno torto? Ma ancora: dopo l’orrore del 1994 il nuovo Ruanda ha intrapreso un percorso di pacificazione, cancellando con magnanimità dal 2007 la pena di morte, anche per i reati connessi al genocidio, e istituendo fin dal 2001 i tribunali gacaca (pronunzia gaciàcia), ispirati alle istituzioni tradizionali alle quali nei villaggi era affidata l’amministrazione della giustizia: all’ imputato che riconosce la sua colpa, chiede perdono alla famiglia e al villaggio e si impegna a risarcire i danni arrecati, la comunità riconosce il pentimento, accorda il perdono e può tornare alla vita normale. Attraverso i gacaca sono passati miglia di ruandesi, e la popolazione è stata aiutata a riprendere un cammino comune, oltre le vecchie e tragiche divisioni.

Se si pensa che il tribunale internazionale di Arusha al 31 dicembre 2015 aveva portato a termine meno di un centinaio di processi, si capisce come la risposta ruandese, basata sulla concezione tradizionale dei rapporti comunitari, sia stata importante per rimarginare veramente le ferite. Inoltre in tutto il paese, su iniziativa del governo di Paul Kagame, viene messa in atto una costante attenzione educativa e mediatica a distinguere le responsabilità, valorizzando il ruolo degli Hutu che non parteciparono al genocidio e anzi, in vari casi, aiutarono i Tutsi perseguitati. Mi pare che una serie come Black Earth Rising che, alla luce di quanto raccolto, tenderebbe a “ribaltare” la ricostruzione storica, mettendo al centro della scena – e quindi del senso comune di milioni di telespettatori – una lettura “ribaltata” della vicenda del genocidio, non solo non aiuti questo processo virtuoso della società ruandese, ma rischi fortemente di contribuire a vanificarlo.