Negli States il diritto di vita o di morte è nelle mani del popolo
01 Agosto 2011
L’ufficio del procuratore generale Benjamin è pieno di ricordi dei suoi viaggi in Europa, segni tra l’altro di una cultura cosmopolita. C’è un poster della Toscana e un acquerello di Parigi. La laurea in legge e gli attestati ricevuti nella sua carriera di procuratore. C’è anche la testa di un manichino bianco, con una serie di segni rossi. Interrogato al riguardo, spiega che l’ha usata in tribunale contro un imputato accusato di aver sfregiato con un rasoio in sedici punti il viso di una ragazza prima di ucciderla. Benjamin ha chiesto e ottenuto dalla giuria la pena di morte, e ora l’imputato è in cella ad aspettare il suo ultimo giorno. A fianco alla testa del manichino, c’è una foto di quattro bambine piccole. Sono le figlie ammazzate da un altro imputato. Altra pena di morte, chiesta e ottenuta.
In sei anni David ha mandato nel braccio della morte tre condannati per omicidio. E il suo è solo uno dei 62 distretti in cui è diviso lo stato della North Carolina. David è la stessa persona che poco prima spiegava come sia fondamentale andare nelle scuole per parlare agli adolescenti, per far capire l’importanza di finire la scuola e cercarsi un lavoro piuttosto che entrare in una gang e commettere reati. Anche perché solo nel 2008 una sentenza della Corte Suprema ha vietato pena di morte per condannati di età inferiore ai 18 anni, prima passibili di andare nel braccio della morte come chiunque altro.
Lo stesso procuratore generale che ha coscientemente scelto di non concentrarsi sulla lotta alla droga per non riempire le carceri di adolescenti condannati per reati minori come il possesso illegale di stupefacenti, ma di indirizzare risorse e attenzioni verso i crimini commessi alla droga – rapine, furti, spaccio. Nella stessa stanza c’è una foto di David e il suo gemello che fanno surf. Il gemello è anch’egli procuratore, in un distretto limitrofo, e a differenza di David eletto con i Democratici si è candidato alla carica come Repubblicano. Altra differenza è che il gemello non ha chiesto finora nessuna condanna a morte. Ma i Repubblicani non erano quelli a favore della pena di morte? “E’ in carica solo da due anni, forse finora non ha trattato omicidi gravi come me”.
Il procuratore Craig è in carica dal 2006, primo afroamericano eletto a Dallas, Texas, per la carica di procuratore generale. Democratico, la sua elezione segna una piccola grande svolta nella gestione dell’ordine cittadino. Una delle sue iniziative-simbolo è la costituzione della “Conviction Integrity Unit”, una squadra incaricata di riesaminare casi in cui il condannato chiede un test del DNA per verificare la propria innocenza. Fino al 2006 l’esame del DNA non era la norma nei processi celebrati a Dallas, e dei sedici casi finora riesaminati per otto volte la sentenza di colpevolezza è stata ribaltata in assoluzione alla luce delle evidenze scientifiche. Nei casi in cui la condanna era la pena capitale, ciò ha fatto la differenza tra la vita e la morte per i detenuti rivelatisi innocenti. L’iniziativa è la prima del genere negli Stati Uniti e ha destato grande interesse, tanto che unità simili sono state formate negli uffici di altri procuratori americani, e persino una serie televisiva – Dallas DNA – è stata girata sulla base dell’esperienza di Dallas.
E’ questo un esempio di innovazioni portate da procuratori generali – i cosiddetti District Attorney – eletti dai cittadini dei singoli distretti. Il fatto di eleggere i procuratori, così come gli sceriffi, i giudici e altre cariche del sistema giudiziario americano, ha il vantaggio di permettere dei cambiamenti in linea con la volontà democraticamente espressa. Il sistema elettivo comporta però anche serie di disfunzioni, limiti, difetti e rischi.
Il primo è che la valutazione giuridica sia influenzata da preoccupazioni legate all’orientamento e alle reazioni dell’opinione pubblica riguardo a un determinato caso: il giudice potrebbe pensare a cosa succederebbe se un imputato di cui decide il rilascio commettesse un nuovo crimine una volta in libertà, a come la prenderebbero i suoi elettori e a quanto sarebbe danneggiata la sua rielezione. E anche se non ci pensasse ciò accadrebbe comunque. Ad esempio nel carcere del tribunale dei minori di Cleveland ci sono 107 detenuti in attesa di giudizio: l’età media è 12 anni, il detenuto più piccolo ha 8 anni ed è stato arrestato perché aveva minacciato i compagni di classe con una pistola. Un giudice tempo fa ha rimesso in libertà un ragazzino in attesa di processo, ritenendo che fosse meglio per lui stare in famiglia che nel carcere minorile, e questi appena libero ha cercato di rapinare un negozio ed è stato arrestato di nuovo. Il giudice non è stato rieletto.
Il secondo problema di un sistema elettivo è che anche i procuratori o gli sceriffi, così come accade per molti politici, passino più tempo a fare campagna elettorale che a svolgere le proprie funzioni. Il terzo attiene al finanziamento della campagna, che giocoforza mette i futuri giudici in rapporto con diretto con finanziatori e donatori di vario genere. Infine, sebbene di solito ci si candidi a questo genere di incarichi senza esplicite affiliazioni partitiche, di fatto i candidati sono legati ai democratici o ai repubblicani, vicinanza che può far dubitare della loro imparzialità in alcune cause.
L’affiliazione partitica non cambia però una cosa, profondamente radicata nella concezione americana della giustizia e trasversale a democratici e repubblicani. Il procuratore Craig, democratico e afroamericano, si è trovato a trattare un caso di omicidio plurimo compiuto da un ragazzo di colore. La condanna chiesta, e ottenuta, è stata una sola: death penalty.