Negli Usa ci si interroga sulla crescita o sul declino dell’Impero americano
22 Febbraio 2012
Il dibattito interno al mondo conservatore sul futuro del modello americano e del suo exceptionalism, eccezionalismo è in pieno fermento. L’uscita nelle librerie di due interessanti saggi ne sono testimoni: uno, a firma Gideon Rachman, dal titolo “Zero-Sum Future: American Power in The Age of Anxiety” e l’altro, di Robert Kagan, “The World American Made”.
Su Foreign Policy del 14 Febbraio scorso, i due studiosi hanno dato vita ad un appassionante dibattito. Le differenze restano evidenti e su molti dei temi trattati. Entrambi convengono su un dato di eccezionale importanza, ovvero sull’idea che se l’America ambisce a continuare ad assicurare la stabilità dell’ordine globale, occorre ancora oggi una fortissima presenza americana. Per Rachman si sta assistendo a un progressiva erosione del modello Usa. Quali gli indizi? Le argomentazioni di Rachman si basano essenzialmente su un assunto: il processo di globalizzazione non può essere confinato nell’alveo dei fatti economici, avendo condizionato le dinamiche geo-politiche mondiali molto più in profondità.
Secondo Rachman, la cosiddetta “età dell’ottimismo” (1991-2008) ha visto un rapido e inatteso fiorire di gran parte delle economie nazionali. Ciò ha reso quanto mai appetibile il processo di globalizzazione. I problemi sono cominciati a manifestare a partire dal 2008. Crisi economica e finanziaria. Stati Uniti e mondo Occidentale fortemente investiti, a differenza della Cina e delle altre potenze emergenti neanche minimamente coinvolti. Ovvia conseguenza, il cambio di leadership economica e l’annesso fallimento del processo di globalizzazione intrapreso nei primi anni ’90.
In base alle stime del Fondo Monetario Internazionale, infatti, già nel 2018 la Cina potrebbe diventerare la più grande economia del mondo in termine di Pil. La vexata qaestio è questa: ciò basta a produrre un nuovo ordine mondiale? La risposta che i due studiosi tendono a dare a questa domanda è piuttosto negativa, benché i due studiosi convergano sull’attuale power shift a favore dell’Oriente. E’ ovvio comunque che nessun Presidente americano potrà più rifarsi alla teoria del “bear any burden”, portare qualsiasi tipo di peso.
Il 2011 ha portato all’attenzione statunitense anche la questione delle rivolte arabe. Per Rachman, nel caso in cui il mondo arabo decidesse di abbracciare i principi di libertà e democrazia, un percorso del genere non potrà che innescare meccanismi virtuosi simili se non addirittura speculari a quelli dell’”età dell’ottimismo”. Concreto è il rischio che i movimenti arabi delle rivolte appena trascorse possano essere l’anticamera di vere e proprie sciagure, regionali e non: Stati falliti, conflitti vari ed eventuali, aumento esponenziale di ideologie anti-occidentali, migrazioni di massa.
Rispetto alle tesi rachmaniane, Robert Kagan si trova su posizioni praticamente antitetiche. Egli infatti ammette l’influenza economica cinese nel prossimo futuro, tuttavia egli la riconduce a dinamiche meno apocalittiche. Lo fa, per esempio, analizzando i dati dei rispettivi Pil pro capite: mentre negli Usa si attessta sui 40.000 dollari, a Pechino essi si colloca ancora a quota 4000, come in Belize. Inoltre, il Pil cinese nel 2030 dovrebbe essere ancora la metà di quello americano. Non necessariamente poi potere economico chiama potenza geo-politica uguale e contraria. Nonostante sia di gran lunga il maggior partner commerciale di moltissimi paesi, dell’area asiatica antistante e non, non sempre un dato del genere comporta maggior peso politico.
“Concordo su un punto fondamentale. Potere politico e peso economico sono due ambiti differenti. Ed è per questo che anche se la Cina diventasse la più grande economia mondiale nel 2018, gli Stati Uniti continuerebbero ad essere ancora per un po’ la maggiore potenza politica del mondo”. Ecco la controreplica di Rachman alle obiezioni poste dal suo collega. Ma l’editorialista del Financial Times giunge a conclusioni ben diverse. L’ espansione cinese non potrà non provocare la modifica dei comportamenti degli altri paesi, nonché cospicui investimenti nei campi più disparati. Militare in primis. Comportando altresì una modifica degli assetti geo-politici mondiali.
Meritevole d’essere riportato l’intervento finale di Kagan del pezzo. “Gli effetti del nuovo ordine multipolare saranno di vasta portata. Talvolta penso che è come se ci fossimo dimenticati di come gli stati siano in grado di comportarsi in seguito all’aumento del loro potere a disposizione. Abbiamo a lungo vissuto in un mondo in cui un paese avesse molto più potere degli altri. L’esistenza dell’egemonia americana – sostiene Kagan – ha sempre imposto a chiunque di agire con inusuale moderazione, frenato le ordinarie ambizioni ed evitato qualunque tipo di azione che potesse anche lontanamente portare alla formazione di una coalizione a guida USA come quella che sconfisse due volte la Germania, una volta il Giappone e l’Unione Sovietica, seppur pacificamente, nella guerra fredda”.
Insomma, il dibattito è in piena evoluzione e, nonostante Rachman e Kagan non siano sulla stessa lunghezza d’onda sul peso da attribuire all’ascesa cinese nell’immediato futuro, su un punto fondamentale entrambi convengono, ovvero sul fatto che l’emergere della potenza economica dell’Impero di Mezzo in competizione a quella statunitense non sia di per sè foriera di maggiore stabilità per il sistema internazionale, con ciò lasciando intendere che le nazioni che ambiscano a sostituirsi all’attuale ‘pax americana’ debbano mettere sul piatto della bilancia qualcosa di più – per quanto eretico appaia – che il primo Pil del mondo.