Negli Usa il gioco si fa duro, è iniziata la rincorsa alle presidenziali del 2012
30 Dicembre 2010
L’anno solare è agli sgoccioli. Gli organi d’informazione (magari perché a corto di altro o di voglia) s’inseguono e si rincorrono a stilare bilanci, bilancini, bilancetti. Evitiamo. Ricordiamo solo che il 2010 è stato l’inizio della fine di quella che solo ieri era stata annunciata come l’alba radiosa di un mondo nuovo, quello segnato dalla stella di Barack Hussein Obama e dal trionfo definitivo del progressismo più smaccato. Menomale.
La leadership dei Democratici negli Stati Unti è in caduta libera e la ripresa della “Right Nation” un fatto innegabile. Tutti i temi cari alla cultura conservatrice sono ancora, fortunatamente, aperti. C’è margine, ampio, di discussione, intervento, modifica. Insomma, la lunga, lunghissima stagione elettorale che si aprirà il 1° gennaio 2011 per concludersi il 6 novembre 2012 con le elezioni del presidente e del vicepresidente federali sarà calda, intensa, decisiva. Obama è tutt’altro che politicamente defunto, e i Democratici al Congresso di Washington conservano nella manica più di un asso, ma che la loro strada sia ora tutta in salita lo sanno loro meglio di chiunque altro.
Per i prossimi 22 mesi, Congresso e Casa Bianca dovranno giocare d’astuzia e di tattica, spesso patteggiare o lavorare occultamente se vorranno spuntarla su questo o quel tema. Non la faranno più da padroni. La nuova Camera, che s’insedierà il 3 gennaio prossimo, presieduta dal cattolico pro–life Repubblicano John Boehner, metterà più di un bastone fra le ruote. Obama dovrà limitarsi soprattutto a bloccare il contrasto Repubblicano, magari agendo di veto. Sulla difensiva, di retroguardia, con profili con tutta probabilità bassissimi. In politica estera, nella lotta al terrorismo internazionale, in economia, sulle vicende spinose di ambiente ed energia, sulle questioni “eticamente sensibili”, sulla riforma sanitaria: ovunque i Democratici dovranno sudare le proverbiali sette camice per cercare di spuntarla, e già questa è una notizia enormemente buona.
Sul fianco destro, peraltro, conservatori e Repubblicani (che sono sempre due cose distinte solo talora poco distanti) si troveranno ogni giorno di più di fronte a una occasione storica. Chiudere con solennità la partita aperta con la vittoria ottenuta alla Camera federale il 2 novembre scorso. Sono alla ricerca da anni, da decenni di un “nuovo Reagan”: è ora che si mettano a scovarlo, anzi a “costruirlo”. Ad allevarlo, educarlo, formarlo, allenarlo. Rispondere d’acchito e d’istinto, come peraltro bene è stato fatto finora, serve solo davanti alla provocazioni più stridenti e alle offensive dell’ora presente; ma chi vuole salvare il destino della nazione e l’anima del Paese da un deragliamento cronico, e talora sornione cioè astuto e perniciosissimo, come dicono (e certamente voglio fare) i conservatori e certi Repubblicani, deve prepararsi alle sfide di ampio raggio e grande portata, al futuro non solo prossimo, a campagne lunghe.
Si fanno molti nomi, e grossi, nei pronostici su chi si prenderà la briga di sfidare Obama nel 2012. Le primarie Repubblicane, è quasi certo, saranno affollatissime di vedette politiche: la cosa migliore che i Repubblicani possono fare sin d’ora è allora patteggiare con chiarezza strategie e dislocamenti sul campo assieme alle truppe più fedeli, i conservatori del “movimento” che se intelligentemente stuzzicati sanno offrire performance meravigliose di abnegazione e coraggio.
Un lungo anno di ben 22 mesi attende insomma le schiere vittoriose dei “Tea Party”, che sbaglieranno se penseranno di poter vivere solo di rendita. Del resto, i colpi di coda del Congresso uscente, quello dove i liberal hanno maggioranza granitica sia al Senato sia alla Camera, mostrano bene quanto dura e persino subdola sarà la tenzone. Appena prima di mollare gli scranni all’entrante maggioranza Repubblicana della Camera, il patto d’acciaio fra Congresso e Casa Bianca ha portato a casa alcuni risultati importanti e gravi.
Il 22 dicembre Obama ha firmato l’entrata in vigore della legge che riforma il “divieto” per gli omosessuali di entrate nell’esercito. La si pensi come si vuole sui gay: ma l’uso propagandistico, quindi culturale, che di questo provvedimento si sta facendo e sempre più si farà è assolutamente evidente. Perché la sostanza è risibile. Che bisogno c’è di sbandierare i propri gusti sessuali per voler entrare in un esercito volontario di carriera? Forse che un militare qualsiasi sappia sempre tutto dei gusti, degli orientamenti e delle preferenze pure sessuali dei propri compagni d’arme, anche se eterosessuali? A un serviceman interessa più poter contare sul proprio commilitone in battaglia o sapere se legge i giornaletti porno? Chiaro, se il leggerli lo rincretinisce sino a farne un pericolo per sé e per gli altri, allora la cosa si fa rilevante: ma se no, no. Del resto, non è che prima del 22 dicembre 2010 i gay non potessero fare i soldati. Lo potevano fare tranquillamente standosene cuciti sulla propria sessualità così come su quale tipo di marmellata preferiscono a colazione giacché tema non rilevante, ma soprattutto se non mettevano in pericolo sé e i compagni.
Ci si straccia le vesti (giustamente) per il turpe scandalo dei preti (alcuni) pedofili. Si dimentica che il problema vero della Chiesa Cattolica sono semmai i preti omosessuali, e cioè il fatto che non vanno introdotti in seminario tipi che palesino comportamenti inadatti a reggerne le condizioni (che uno accetta volontariamente se ha voglia di fare il prete) poiché poi finiscono per buttare il clergyman alle ortiche e gettarsi sui propri compagni di corso, di canonica o di coro per voci bianche. Ecco: perché invece nell’esercito statunitense deve essere ora tutto il contrario?
Relativamente ai soldati americani, la situazione antecedente risale al 1993 e fu stabilita dal progressistissimo presidente Bill Clinton, prendeva il nome di “Don’t ask, don’t tell” ed era una norma di senso comune, normale e intelligente. Cercava di regolare praticamente e al meglio una situazione che avrebbe anche potuto finire per farsi grave, fra nonnismo, discriminazioni, prevaricazioni. L’idea era quella che se sei gay, te lo tieni per te, non ne parli, io non te lo chiedo, tu non lo dici. Esattamente come di te non dici tante altre cose. Se non giri negli spogliatoi con il reggicalze rubato a tua sorella, indossalo pure sotto la mimetica e io non ti dirò i sogni che faccio la notte sull’ufficiale di complemento in gonna che ogni tanto ci sculetta attorno. Fine della questione.
L’orientamento sessuale non deve essere discriminante, pensava quella prassi clintoniana, liberal e Democratica, né in un senso né nell’altro. Fa parte di quelle cose intime e personali che non debbono divenire il marchio pubblico di un uomo o di una donna o di un/una omosessuale né in bene né in male (a meno che non pongano seri problemi di convivenza, cioè di ordine appunto pubblico, il resto è roba da confessionale non da legislatori). Il volerne fare invece una barriera riduce la persona umana a mero istinto sessuale, base e criterio per giudicare tutto il resto. Male, malissimo: è così che i gay si costruiscono da sé il ghetto in cui poi volontariamente si chiudono.
Non me lo chiedere, non te lo dico: occhio non vede, cuore non duole. I militari americani debbono tenere alta la bandiera a stelle e strisce, qualunque sia il loro orientamento sessuale. Ora invece sarà diverso; magari ci s’inventeranno quote (non rosa, ma lilla) per i gay che debbono godere di uno status privilegiato per gli avanzamenti di carriera, ci si domanderà forse se dotarli di una divisa specifica diversa da quella di maschi e femmine, magari pure di camerate e toilette separate, insomma adesso se ne farà dei diversi. Prima erano uguali agli altri, se non facevano, come non dovevano farlo tutti gli altri, gli stizzosi.
Ma soprattutto si sposterà colpevolmente il punto nodale della questione. Che siccome stiamo parlando dell’esercito del Paese più potente del mondo è sempre e solo la difesa della patria, la loro e magari anche la nostra. Questo passerò ora in secondo piano. Non me lo chiedere, non te lo dico: la prassi sobria, quasi da famiglia media americana, che sa assorbire e digerire tutto, anche le cose brutte, e il tempo che sana le ferite, e la carità anzitutto, e il silenzio dove ci vuole, soprattutto con quegl’impiccioni dei vicini di casa.
Con la scusa dei militari, la propaganda che riduce la persona umana, per esempio omosessuale, a un ammasso di carne da soppesare come al mercato in base a come pensa di usare i propri genitali è ora dottrina di Stato. La chiamano libertà. Fa ridere. Fa invece piangere la possibilità, infingarda e cattiva, di “darsi la morte”, che i Democratici uscenti hanno appena introdotto aggirando con un trucchetto da Silvan dei miserabili l’opposizione di popolo all’eutanasia voluta da Obama e dai suoi nel testo originario della famosa “riforma” sanitaria.
La ragione popolare ha negli Stati Uniti 22 mesi per riportare la cosa pubblica a una idea e a una sostanza di bene comune più onorevoli per la persona umana, gay o no, malata terminale o sanissima che sia. Due anni di battaglia politica e di approfondimento culturale. Non mancheranno i colpi. Ma è quando il gioco si fa duro che i duri cominciano a giocare. Buon anno America.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiainstitute.it] e direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]