Negli Usa il petrolio a 135$ al barile ha già travolto gli ambientalisti
16 Giugno 2008
Quando il petrolio ha raggiunto prima quota 40$ per barile e poi 70$, eravamo ancora sereni. Poi le cose sono cambiate.
D’altronde, con un paio di miliardi tra cinesi, indiani e tanti altri che entreranno a far parte del mercato globale, c’è bisogno di molta energia. La nostra unica speranza è Il meccanismo dei prezzi.
Di certo questo meccanismo sta funzionando. I capitali stanno affluendo verso le enormi riserve di sabbie bituminose del Canada. Si stanno poi verificando numerosi cambiamenti dal lato della domanda. Le vendite di SUV stanno calando mentre aumentano quelle delle meno assetate berline a quattro cilindri. Poi, è calato per la prima volta dopo 26 anni, nel mese di febbraio, il numero di miglia normalmente percorse dagli automobilisti americani.
A 70$ il barile ci preoccupavamo soltanto del fatto che il folle comportamento di Cina e India, che mantenevano artificialmente bassi i prezzi al consumo, fosse contagioso. Al contrario, c’è stata una buona notizia. Taiwan, l’Indonesia e la Malesia stanno riducendo i sussidi o per lo meno stanno pensando di farlo. L’India e la Cina, pur non potendo lasciare i prezzi liberi di fluttuare nel breve periodo, si affretteranno a seguirne l’esempio, anche perché attualmente si trovano costrette a razionare le proprie riserve energetiche.
La scommessa fatta da alcuni speculatori, che prevedono una scarsa disponibilità dell’oro nero nel lungo periodo, si rivelerà completamente sbagliata. Gli idrocarburi sono abbondanti e possono essere estratti sia dalle piante viventi che dai loro resti fossili. Inoltre molti giacimenti petroliferi, costruiti con l’attuale tecnologia, vengono considerati esauriti quando sono ancora al 50% della loro capacità.
Sfortunatamente, il barile a 135$ non è riuscito a portare quella coerenza necessaria né alla retorica né alla politica energetica americane.
Da una stima risulta che l’America possiede abbastanza petrolio e gas da soddisfare i propri bisogni per mezzo secolo. La nostra sensibilità ambientale non ci permetterà però di sfruttare appieno queste risorse ma non ci impedirà neanche di richiedere con forza alle altre nazioni di distruggere i loro intatti paesaggi per fornirci energia a buon mercato. Il presidente Bush infatti è corso dai Sauditi, supplicandoli di estrarre più petrolio. Il Congresso ha inoltre minacciato l’OPEC di intraprendere azioni antitrust. Che i politici americani continuino a coltivare idee prive di ogni fondamento logico riguardo un elemento cardine della civiltà industriale, testimonia solamente quanto il mercato dell’energia sia stato reattivo e flessibile, malgrado le sciocchezze che i politici ogni volta riescono a compiere.
Inoltre è stupido il comportamento dei movimenti ambientalisti che esultano per il petrolio a quota 135$ per barile, come se questo rappresentasse in qualche modo la fine dell’era dei combustibili fossili. I prezzi alti non sono l’equivalente di un’imposta, anzi avranno un effetto opposto nel lungo termine, stimolando sia gli investimenti che il progresso tecnologico e, di conseguenza, accrescendo le risorse di combustibili fossili disponibili. Raffinare carbone, sabbie bituminose e argillite petrolifera e trasformarle in carburante, ad un costo pari alla metà del prezzo attuale del petrolio, significa aumentare in modo massiccio le emissioni di CO2. Per gli ambientalisti è, senza dubbio, il peggior scenario immaginabile.
Vogliamo dare un consiglio anche a chi non necessariamente parteggia per la nostra causa. Se il petrolio a 135$ per barile non rappresenta per i politici un incentivo sufficiente per crescere dovrebbe per lo meno stimolare un’attenta riflessione tra le cassandre del riscaldamento globale.
Potrebbero crescere riconoscendo che le responsabilità delle emissioni di CO2 non sono ancora state provate scientificamente. Il nostro sistema politico ha analizzato il problema del cambiamento climatico per una generazione e la mancanza d’azione non è dovuta alle macchinazioni delle grandi compagnie petrolifere ma all’incapacità della politica di colmare il divario esistente tra i costi prospettati e i benefici. Anche ammettendo le responsabilità delle emissioni di CO2 nessun economista è in grado di fornire dati chiari sui costi del riscaldamento globale.
Crescere significa anche capire che gli ambientalisti rischiano di vedere compromessa la propria credibilità politica, dato che potrebbero diventare delle semplici pedine nelle mani delle lobby del biodiesel o delle imprese di energia alternativa della Silicon Valley. La loro attenzione non va oltre il dibattito sul clima che si sta svolgendo a Capitol Hill questa settimana, in cui l’unica domanda sensata è quanto dovrà spendere il Congresso per il clima senza però neanche l’ombra di un intervento concreto.
Crescere infine significa capire che applicare un’imposta sul consumo dei carburanti è l’unica proposta politicamente e moralmente credibile degli ambientalisti. I proventi potrebbero essere destinati a ridurre il carico fiscale sul lavoro e sul capitale, incentivando così sia il lavoro che gli investimenti. È un buon esempio di tassa che colpisce le cose "cattive" e non quelle "buone", con benefici, da un lato, per la crescita e, dall’altro, per gli interessi dell’elettore medio, senza alcun bisogno di accertare le presunte responsabilità delle emissioni di CO2.
Gli elettori e i loro rappresentanti potrebbero dunque sostenere una politica climatica che valuti in maniera razionale costi e benefici, piuttosto che basata sui dogmi che Al Gore e altri utilizzano per sostenere le loro idee. Impareranno i Verdi questa lezione? Probabilmente no, ecco perché il petrolio a 135$ può rappresentare la fine di ogni movimento politico che abbia a che fare con il riscaldamento globale.
Copyright © Wall Street Journal. Traduzione Nicola Gori