Nei gulag della Corea del Nord si mangia neve per sopravvivere

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Nei gulag della Corea del Nord si mangia neve per sopravvivere

22 Giugno 2009

Era una domenica di pioggia, il 25 giugno 1950, quando i colpi dei cannoni iniziarono a risuonare lungo il 38° parallelo. Da allora, le due Coree si stagliano l’una di fronte all’altra, come due destini opposti, come una stessa anima lacerata irreparabilmente. Ormai sono due Paesi troppo diversi perché si possa credere che un tempo questo popolo fosse unito, e che questa terra fosse accomunata dalla minaccia dei costanti appetiti di due vicini famelici come Cina e Giappone. Oggi, alla distesa di luci di Seoul si contrappone il buio di una Pyongyang che spesso resta senza corrente elettrica; con l’economia solida di una delle tigri asiatiche convive sulla stessa penisola un’economia pianificata fallita già in partenza, che affama la sua gente fino al cannibalismo.

Il Pil pro capite del Sud è 30 volte superiore a quello del Nord, ma il regime di Pyongyang continua a celebrare la “marcia inarrestabile” del popolo nordcoreano. Il Sud, dopo un percorso molto difficile di crescita politica e civile, è oggi una democrazia liberale; il Nord non sa nemmeno cosa vogliano dire le parole parlamento o elezioni libere. Capire cosa sia la Corea del Nord non è facile. Bisogna sforzarsi di immaginare il punto più basso della follia umana, risultato dell’unione nefasta tra ideologia comunista e nazionalismo arcaico. A questa difficoltà si aggiunga la caratteristica principale del regime dei Kim: l’impenetrabilità.

Nessuno esce e nessuno entra nel paese dove tutto è sottosopra. I contatti con l’esterno sono inesistenti; la popolazione viene indottrinata fin dalla tenera età nel sistema di “educazione” più lungo del mondo (che finisce, in pratica, solo con la morte); i televisori sono pochissimi e venduti con le frequenze bloccate, in modo da visualizzare solo la tv di stato; i giornali sono tutti emanazione del Partito Comunista o del governo; Internet è una parola sconosciuta; persino per viaggiare all’interno del paese è necessario un permesso speciale. La stragrande maggioranza della popolazione è costantemente impegnata nel disperato tentativo di sopravvivere alla fame. Gli aiuti umanitari vengono distribuiti spacciandoli per indennizzi di guerra degli “sconfitti” Stati Uniti e Corea del Sud, mentre i soldi sono impiegati per armare missili sempre più potenti, arrivare all’arma atomica e tenere in salute l’esercito.

La vita culturale è sotto la soglia dello zero: persino i libri classici del comunismo, come quelli di Marx, Lenin e Mao, vengono tenuti sottochiave e per leggerli è necessario un permesso ufficiale. I volumi diffusi sono invece le agiografie sulle imprese dei due Kim, il fondatore ed il regnante attuale: del primo si narra che fu l’ideatore del comunismo in Corea (mentre in realtà già dal 1919 nel paese erano presenti due partiti comunisti, tra l’altro ben presto in lotta sanguinosa tra loro per assicurarsi i favori di Mosca), del secondo che abbia poteri soprannaturali come quello di far calare la nebbia a piacimento (come affermato ad esempio dall’agenzia ufficiale nordcoreana il 24 novembre del 1996). Sembra un inferno medievale: è la realizzazione del socialismo perfetto.

La Repubblica Democratica Popolare di Corea è nata nel 1948, in palese contrasto con la volontà degli Stati Uniti. Questi infatti, già a partire dal 1943, a seguito della Conferenza del Cairo, prevedevano, dopo l’allontanamento degli invasori giapponesi, la creazione di una Corea unita, democratica e non allineata. Tuttavia le elezioni che dovevano portare alla formazione un governo legittimo e libero per tutta la Corea furono impedite dall’avvento della Guerra Fredda. In pratica, le truppe sovietiche, che occupavano la parte settentrionale fino al celebre 38° parallelo, non avevano consentito l’ingresso degli ispettori ONU per le consultazioni previste per il 1947 (come riporta la American Peoples Encyclopedia). Gli Stati Uniti d’altra parte sostennero l’insediamento a Seoul di un governo autoritario, guidato dall’anticomunista Syngman Rhee. Il governo del Nord avviò una riforma agraria e si impossessò di tutti i mezzi di produzione. Il baratro tra le due Coree si allargava, la tensione saliva.

Dopo due anni di progressiva chiusura del regime ed azzeramento della vita pubblica interna, Kim Il Sung, combattente antinipponico posto dai sovietici a capo del nuovo stato socialista nel Nord, si sentiva pronto ad attaccare il debole Sud e a riunificare l’intera penisola sotto il terrore. Strappato il permesso a Stalin, il nulla avanza: il 25 giugno 1950 l’esercito del Nord apre il fuoco d’artiglieria sul Sud e inizia l’invasione. Nei tre anni seguenti, solo il sacrificio di più di 40.000 giovani vite americane, sotto mandato ONU, permise alla Corea del Sud di resistere e di respingere la minaccia di venire inglobata nel sistema totalitario attualmente più feroce al mondo. Ma per mezza Corea, quella meno fortunata, l’incubo era solo iniziato.

Quel poco che trapela dalla Corea del Nord ci da l’idea di un luogo di follia e crimini inauditi. Follia, come quella di un’autostrada ad otto corsie vuota, che parte dalla capitale per perdersi nel nulla, circondata da campagne in perenne carestia, da cui masse di “compagni contadini” vedono passare solo molto raramente le macchine scintillanti di qualche generale o funzionario di partito. Follia, come quella di vigilesse che a Pyongyang dirigono con ampi gesti un traffico che non esiste, in immensi viali deserti. Follia, come quella di scuole in cui si studia che durante la Seconda Guerra Mondiale Stati Uniti e Giappone (gli eterni “nemici imperialisti” del popolo coreano) erano alleati…

I crimini, atroci, sono quelli di purghe che periodicamente falcidiano i piani alti del potere (basti pensare che dei 22 componenti del primo governo della Repubblica 17 sono stati in seguito passati per le armi), ma anche quelli comuni, di tutti i giorni, appartenenti ad un sistema in cui, per volontà del “padre della nazione” Kim Il Sung, non solo vengono giustiziati gli accusati di tradimento ma anche internati nei campi di lavoro tutti i loro parenti fino al terzo grado. Prima della caduta dell’URSS, potevano assistere ai processi solo i giornalisti sovietici; oggi le farse avvengono del tutto a porte chiuse. Il diritto a difendersi qui non è mai arrivato: perfino gli avvocati d’ufficio fanno parte del Partito.

Nel 2002 la rivista Far Eastern Economic Review riuscì a pubblicare per la prima volta foto satellitari di un campo di sterminio nordcoreano. La terra dei Kim è così impenetrabile che fino ad allora nessuno aveva mai avuto prove dell’esistenza di questi centri di rieducazione comunista. A seguito della pubblicazione di immagini così chiare, l’europarlamentare Olivier Dupuis aveva presentato sempre nel 2002 un’interrogazione in cui chiedeva: “Quando intende la Commissione/Consiglio trasmettere alla competente commissione del Parlamento europeo le immagini satellitari o qualsiasi altra prova dell’esistenza dei campi di concentramento in Corea del Nord e quali iniziative politiche intende prendere nei confronti di Pyongyang per ottenere la chiusura immediata di tutti i campi di concentramento ed il rilascio di tutti i prigionieri?” Domanda tuttora senza risposta.

Le immagini satellitari vanno del resto a confermare i racconti dei pochissimi nordcoreani che sono riusciti a fuggire, superando il confine con la Corea del Sud o, molto più spesso, quello con la Cina. Ahn Myong Chol è uno di loro. Ex guardia carceraria presso il campo di sterminio di Hoeryong, dove ha lavorato dal 1987 al 1994, scelse la fuga dopo essere venuto a sapere dell’arresto di suo padre, reo di aver criticato in pubblico Kim Jong Il.

Le parole di Ahn Myong Chol denunciano i crimini disumani del regime comunista, a cui lui stesso per sette anni della sua vita ha preso parte. E’ stato anche ascoltato nel 1998 da una sottocommissione del Senate Foreign Relations Committee degli Stati Uniti e più volte dalle agenzie governative sudcoreane. In un’intervista rilasciata nel 2003 alla rete televisiva americana MSNBC, Chol ricorda le torture e le violenze subite dai detenuti di Hoeryong: “They trained me not to treat the prisoners as human beings. If someone is against socialism, if someone tries to escape from prison, then kill him. Beating and killing is an everyday affair. They are not treated as human beings; they are just like dogs or pigs.”

Il trattamento disumano comprende 12 ore di lavoro al giorno in campi, fabbriche o pericolose miniere; seguono ore di rieducazione; se un detenuto si attarda la scusa viene presa al volo per picchiarlo a morte. Poiché uccidere detenuti in fuga è un merito dei sorveglianti, che vengono premiati dal regime anche con trasferimenti in città e nei college, molto spesso i soldati incitano qualche prigioniero a tentare di scalare la recinzione per poi aprire il fuoco e trucidarli. Il racconto di Chol si fa raccapricciante nei dettagli di stupri, esecuzioni, omicidi compiuti quotidianamente. Ed il regime assume forme ancor più sconvolgenti quando questo testimone racconta di come si insedi perfino nei cuori della gente, togliendo ogni parvenza di umanità: nei campi infatti non ci sono cerimonie funebri e si vieta ai parenti di piangere di fronte alle quotidiane morti dei prigionieri, perché: “The anti-revolutionary person has died, so there is no reason to cry”.

Le persone che finiscono in campi di sterminio sono i critici del comunismo, coloro sospettati di non rispettare il “beneamato leader”, o di inviare informazioni all’esterno; e con loro tutta la famiglia fino ai parenti di terzo grado. Sono le persone che quotidianamente scompaiono dalle campagne, molto più spesso dalle strade delle città, senza che nessuno si ricordi più di loro, senza che nessuno protesti, per non fare la stessa fine. Chol prosegue descrivendo le pratiche di “autocritica” a cui gli stessi soldati ogni settimana si sottopongono. E passare da carnefici a vittime di questo sistema inumano può essere questione di una sola parola: se si nomina Kim Il Song dimenticandosi di porre di fronte l’epiteto “grande leader” la punizione fisica è certa. Da campi come questo, racconta Chol, non si esce neppure da morti: i cadaveri vengono accatastati o parzialmente seppelliti all’interno della zona sorvegliata e recintata.

Bisogna considerare anche che i campi di concentramento sono preziosissimi per quel che rimane della disastrata economia nordcoreana. E’ proprio su questo lavoro a costo zero, oltre che sugli aiuti provenienti dall’esterno, che ancora si regge la dittatura.

La signora Li Sun Ok era un membro del Partito dei lavoratori e comunista convinta. Vittima di una delle sistematiche purghe, fu torturata con corrente elettrica e pestaggi fino a confessare delitti contro lo stato che non aveva mai commesso. Inviata in un campo di lavoro per 13 anni, si trovò immersa nell’orrore più profondo, lavorando fino a 18 ore al giorno nella produzione di fondine per pistole, borse, cinturoni, detonatori per esplosivi. In un’intervista rilasciata nel 1997 a Seoul, dove è riuscita miracolosamente a fuggire, racconta allo storico francese Pierre Rigoulot che le prigioniere donne se incinte venivano fatte abortire in condizioni terribili. Ma lo stesso Rigoulot, in “Corea del Nord, Vietnam, Laos: il seme del drago”, ricorda che: “il supplizio peggiore è forse la fame, e i detenuti fanno di tutto per catturare e mangiare rane, topi, lombrichi”. Ecco i grandi risultati raggiunti nel paradiso del socialismo reale. Immagini assurde e racconti raccapriccianti di violenza, annullamento della libertà, carestia.

Questi frammenti di assurdità e dolore sono testimonianze di un orrore senza fine che la Corea del Sud ancora oggi vede di fronte a sé, oltre quel parallelo maledetto, sapendo che avrebbe potuto farne parte. Cinquantanove anni dopo quel colpo di artiglieria che alle 4.00 ruppe il silenzio di una mattina piovosa attorno a Kaesong, la Corea del Sud ancora ringrazia il sacrificio degli Stati Uniti, le vite spezzate di ragazzi venuti da lontano per difendere il futuro incerto di una nazione nascente e già minacciata dalla sua metà oscura.