Nel cuore più intimo e segreto della notte di Natale
25 Dicembre 2008
Tremavo verga a verga per l’influenza che mi aveva aggredito il giorno prima, mai avrei dovuto intraprendere un viaggio con l’influenza, invece mi ero illuso di essere guarito per il benessere relativo procuratomi da una notte di riposo, così mi ero messo in treno, ma già durante il viaggio, specie durante le soste nelle gelide stazioni di quella regione montagnosa, la febbre mi era tornata e dopo il mio arrivo a Zenoburg era salita parecchio, per un’ostinazione infantile non avevo voluto il termometro, non avevo chiesto il termometro ai miei ospiti per una di quelle ridicole impuntature da bambini che mi prendono ogni tanto, anzi ai miei amici non avevo detto nulla della febbre, non volevo assolutamente che si preoccupassero della mia salute o che provassero rimorso per avermi invitato con tanta insistenza a trascorrere con loro il Natale a Zenoburg, quindi avevo cercato di essere disinvolto e durante la cena avevo anche raccontato delle barzellette, scusandomi per l’abbassamento di voce, una voce rauca da far paura, comunque le barzellette erano piaciute, soprattutto erano piaciute alla signora Gutgasteiger, che aveva riso fino alle lacrime, con quella bella bocca corallina e i denti bianchi, e prima di cena avevo anche dovuto cantare un paio di Lieder di Schubert, non avrei certo potuto deludere i miei amici rifiutandomi di cantare, Max e Valentino avevano aspettato mesi per sentirmi cantare Heidenröslein e Das Fischermädchen, Carlotta mi aveva accompagnato al piano con sospesa trepidazione e tutti avevano applaudito nonostante la voce non ci fosse, la voce proprio non c’era, ma avevo provato lo stesso quella profonda emozione che mi dà sempre Schubert, avevo anche parlato di Joyce e della sua abitudine di girare a notte per le osterie di Trieste cantando con la sua bella voce tenorile, andava da una bettola all’altra e cantava coi portuali e con i marinai, avevo raccontato, e così la serata si era conclusa nel migliore dei modi, tutti erano stati contenti, ci eravamo scambiati gli auguri e i regali, anch’io avevo ricevuto la mia razione di auguri e di regali ed ero stato proprio contento di essermi deciso a venire quassù a Zenoburg, era stata proprio una buona idea, mi ero ripetuto, ma poi, salendo le scale che portano quassù, all’ultimo piano di questa torre trecentesca, avevo cominciato a tremare come un fuscello e ora, seduto in pigiama sulla tazza del gabinetto tremavo e mugolavo per il freddo e per la febbre, il freddo usciva dalle pietre della torre e mi penetrava nelle ossa, dal mio corpo esalava il tipico odore della febbre, dove toccavo la pelle mi doleva, mi sentivo in uno stato miserando, non potevo far altro che gemere e tremare, gemevo in sincronia con il tremito, accompagnavo il tremito con gemiti e mugolii sperando di scaldarmi almeno un po’, almeno quel tanto che mi permettesse di uscire dal gabinetto ed entrare nel letto, mi dicevo che il tremito serve per aumentare la temperatura del corpo negli ambienti freddi, ecco a che cosa serve il tremito, mi dicevo, ma poi mi dicevo che avendo la febbre il corpo non aveva affatto bisogno di aumentare la propria temperatura, e in questa specie di contraddizione m’incagliavo senza rimedio, restava il fatto che tremavo con violenza e quel tremito continuo m’impediva anche di fare la mia acqua, che pure dovevo fare per non dovermi alzare dal letto magari di lì a poco e tornare in bagno percorrendo quei tre o quattro metri nell’aria gelida della torre trecentesca, e intanto l’occhio mi era caduto sulla traduzione italiana di un prontuario medico del Karolinska Institut di Stoccolma, che stava lì sullo sgabello e di cui certo si serviva Margareta, o se n’era servita durante gli studi di medicina, e aprendolo a caso ci avevo trovato le indicazioni terapeutiche per un numero sconfinato di malattie, sindromi, patologie, scompensi e insufficienze, dalla podagra all’ictus cerebrale, ma non c’era nulla che potesse fare al caso mio, da nessuna parte si menzionavano quegli incoercibili brividi di febbre influenzale, aumentati a dismisura d’intensità dopo il viaggio in treno, dopo i Lieder di Schubert e dopo il cenone e i regali di Natale, del mio caso il manuale non faceva assolutamente menzione, forse solo un bagno caldo mi avrebbe giovato, un bagno ben caldo e poi un massaggio vigoroso accompagnato da un’ulteriore dose di grappa oltre a quella assunta a più riprese durante la serata, ecco la terapia di elezione per il mio malanno, ma lì in cima alla torre trecentesca non c’era nemmeno da pensarci, a questa terapia, grappa non ce n’era, esperte mani di fisioterapista non ce n’erano, al massimo avrei potuto fare un bagno, accanto a me c’era la vasca e sentivo ronzare lo scaldabagno acceso, ma l’idea di mettermi a fare il bagno a quell’ora di notte, mentre dalle finestre scorgevo il biancore soffuso dei monti innevati, la sola idea di spogliarmi del pigiama di flanella per entrare nell’acqua e soprattutto l’idea di doverne prima o poi uscire, tutte queste idee mi atterrivano e le respingevo con forza, e intanto nel manuale avevo trovato le pratiche e terapie da adottare nei casi di congelamento, terapie che mi sembravano le più adatte alla mia situazione attuale, e le scorrevo con un certo conforto, tanto che mi pareva che il tremito andasse calando, e ripetevo a bassa voce panni caldi, senapismi, olio canforato, frizioni, cataplasmi, e mi pareva che tutto ciò giovasse, tanto che ero anche riuscito a fare la mia acqua e mi domandavo se non fosse il caso di avviarmi verso il letto quando cominciai a tossire di una tosse chiusa, pietrosa, maligna, che mi procurava un violento dolore nel mezzo della schiena e in mezzo al petto, un dolore da togliere il fiato, che già poco me ne restava, e mi era venuto in mente quell’imbecille di medico che anni prima mi ero trovato seduto accanto a una cena di beneficenza e che dopo avermi guardato in tralice per tutta la sera, dopo avermi fissato le mani, e in particolare le unghie, per tutta la sera, seduto accanto a me mi aveva tenuto d’occhio dita e unghie per ore, finalmente, dopo essersi consultato sottovoce con sua moglie, pure lei medichessa e prodiga di curiose occhiate alle mie mani e in particolare alle mie unghie, allungando il collo per meglio vedere le mie unghie al di là della massa ingombrante del medico suo marito, il quale insomma dopo un bel po’ di osservazioni ed esitazioni e consultazioni si era deciso e mi aveva comunicato, con il viso della compunzione ma in realtà con il compiacimento diagnostico tipico dei medici in questi casi, che io avevo proprio le unghie a vetrino d’orologio e io gli avevo risposto ridendo che così avrei sempre potuto sapere l’ora senza fatica, ma lui non aveva riso, non aveva affatto riso, il medico, anzi di fronte alla mia incoscienza aveva assunto un’espressione ancora più preoccupata, pareva proprio che la mia incoscienza e irresponsabilità totali di fronte al suo annuncio lo addolorassero, così aveva ripreso con quella storia del vetrino d’orologio, aveva ripetuto con aria lugubre che le mie unghie avevano proprio la tipica forma a vetrino d’orologio, forse insisteva tanto su questa faccenda del vetrino d’orologio per spingermi a fargli qualche domanda invece di ridergli in faccia come stavo facendo, in realtà ridevo perché quella storia del vetrino d’orologio la conoscevo da un pezzo, una volta andavo a letto con una studentessa di medicina che scopava bene ma studiava poco, e tra l’altro l’avevo anche aiutata a preparare l’esame di patologia medica, io ho sempre avuto un debole per la patologia medica, non per quella chirurgica, e quella storia delle unghie a vetrino d’orologio e delle dita a bacchetta di tamburo ci aveva fatto ridere un bel po’ con la mia amante studentessa, ma adesso il mio commensale medico non ne rideva affatto, meno ancora ne rideva la moglie, che dopo avermi osservato e per così dire misurato le unghie per tutta la sera ora si nascondeva dietro il marito e lasciava a lui tutta la sgradevole, o gradevole, incombenza di svelarmi, come ora il marito medico stava facendo, dopo tutta quell’apparente cautela, dopo tutta quell’ipocrita pantomima e santocchieria da medico, il medico mi stava ora rivelando la mia spaventosa condizione, cioè che io soffrivo di una terribile malattia polmonare, anzi ero all’ultimo stadio di quella terribile malattia polmonare, come rivelavano senz’alcuna possibilità di equivoco la peculiare rotondità e convessità e brillantezza delle mie unghie, che tanto l’avevano colpito da quando si era seduto a tavola accanto a me, e anche sua moglie, aveva aggiunto con santimonia, anche lei si era accorta di quel segno inequivocabile, ma io non mi ero lasciato impressionare, non mi aveva per nulla impressionato il tono da medico pietoso che aveva assunto il mio vicino mentre sua moglie aveva immerso il faccione apoplettico nella coppa della pêche Melba fingendo di ignorare la nostra conversazione, mentre in realtà non ne perdeva una sillaba, perché sussultò come per uno schiaffo quando, a voce bassa ma distinta, attirando l’attenzione anche di altri commensali, dissi che era la prima volta che mi veniva diagnosticata la sindrome di Pierre-Marie, e la cosa più divertente era che la diagnosi mi fosse stata fatta a una cena di beneficenza in favore delle ricerche sul cancro, e per di più gratuitamente, perbacco, e qui la mia voce aveva assunto un tono interrogativo, tanto che il medico santimonioso aveva fatto cenno di sì, che la diagnosi che aveva fatto del mio ultimo stadio era del tutto gratuita, e certo l’aveva sorpreso che io conoscessi il nome della sindrome e anche molti dei suoi sintomi ed effetti, che ora gli venivo snocciolando mentre la medichessa sua moglie, sempre più imbarazzata, cincischiava la sua pêche Melba, la faceva girare nella coppa con il cucchiaino senza decidersi a mangiarla, e la mia esibizione di scienza medica, del tutto inattesa in un cantante, aveva molto impressionato il mio vicino medico, che ora mi guardava con compatimento e ammirazione, con molto compatimento ma anche con una certa ammirazione, però io ero stato magnanimo, non avevo infierito, avevo ripreso il mio tono leggiero e ridendo avevo detto che quel mio ultimo stadio doveva durare da almeno quarant’anni, perché da quando mi ricordavo avevo sempre avuto le unghie a vetrino d’orologio, cosa che avevamo notato anche con la studentessa di medicina non appena eravamo arrivati a quel capitolo della patologia medica, e la cosa era anche testimoniata da numerosi disegni che mi ero fatto negli anni delle dita della mano destra, comprese le unghie, dita e unghie del tutto simili a quelle della mano sinistra, ma io sono mancino, quindi usavo la sinistra per ritrarmi le dita della destra, ho sempre avuto una vera passione per il disegno della mano destra, e anzi alcuni di quei ritratti di dita e di unghie li avevo fatti proprio là, a Zenoburg, ed erano i più riusciti, perché Elizabeth Hanna, da quell’amica e brava ritrattista che era, mi era stata prodiga di consigli, insomma proprio lì erano nate alcune delle prove che confutavano la diagnosi terminale del mio vicino di mensa, e dopo questo lungo giro di ricordi ero tornato daccapo, ero di nuovo lì, nel gelido bagno in vetta alla torre trecentesca, avevo deposto il manuale del Karolinska, mi ero soffiato il naso con la carta igienica e tossendo e rantolando ero uscito dal bagno, premendomi il petto dolorante, la schiena non potevo premermela in nessun modo, ma, pensavo, quel dolore così forte alla schiena poteva anche dar ragione al medico e alla medichessa sua moglie, in fin dei conti il medico e la medichessa del malaugurio potevano anche aver anticipato di anni, con istinto infallibile, una diagnosi che a quel tempo nessuno se non loro, con il sicurissimo occhio clinico di certi uccellacci del malaugurio, sarebbe stato in grado di fare, quell’acuto dolore alla schiena suffragava certo una diagnosi precoce che mi ero incautamente affrettato a liquidare con una scrollata di spalle e qualche battuta, e intanto mi trascinavo nel gelo trecentesco verso il letto, perduto in una sua lontananza siderale, circondato dai ghiacci eterni della banchisa, con le ultime forze dell’esploratore polare tentavo di raggiungere il fulgore diaccio di quell’ammasso pietrificato, quella morta distesa biancheggiante, fatto sta che, arrivando finalmente a toccare la sponda dell’immenso letto nel quale avrei dovuto trascorrere alcune notti, avevo provato uno strano sgomento, soprattutto mi sgomentava la vastità di quel letto e il fatto che di lì, più ancora che dal bagno, attraverso un’immensa finestra inferriata scavata nell’enorme spessore del muro della torre proprio di fronte al letto, potevo vedere le montagne innevate e l’aria fosca per la neve che continuava a cadere, e tutta quella neve mi metteva una grande malinconia, ma la malinconia veniva forse più dalla vastità del letto, dove per la prima volta avrei dormito da solo, nelle mie numerose visite natalizie a Zenoburg avevo sempre dormito in quel letto e sempre l’avevo diviso con le mie successive compagne e amiche, l’assistente di filosofia del diritto, la studentessa di medicina e poi medichessa, la maestra d’asilo, la fisioterapista, la biologa, la violinista, con tutte queste donne avevo diviso il letto in cima alla torre, quel letto che si raggiungeva salendo rampe di scale sempre più ripide, prima di pietra e poi di legno, mai ero stato solo in quel letto, sotto quelle grosse travi scure di anni e di catrame, in quella specie di nicchia affacciata sul ballatoio dove si apriva in vista delle montagne l’enorme finestra dalla quale, in passato, le mie compagne ed io avevamo assistito, stando sotto le coltri, alle lente nevicate, ai precoci crepuscoli del dicembre, ricordavo quei brevi periodi invernali a Zenoburg come intervalli di beatitudine riscaldati dal fuoco dell’amore, mentre questa volta ero solo e per di più malato, proprio nel momento della malattia avrei avuto bisogno della vicinanza di una donna, mi dicevo, la compagnia di una donna mi sarebbe stata giovevole, anzi necessaria, e, viceversa, nella mia condizione di solitudine avrei almeno avuto bisogno di tutte le mie forze, solo con l’aiuto di tutte le mie forze fisiche e psichiche avrei potuto affrontare la solitudine, invece ero solo e malato, ero malato ed ero solo, riflettevo solo soletto nel silenzio della gran torre trecentesca, nel cuor della notte, la notte di Natale, per di più, quando nessuno dovrebbe essere solo e abbandonato, c’erano i miei amici, è vero, parecchi metri più in basso, ai vari piani della torre, dormivano i miei amici, ma io sentivo la mancanza di una donna, di una delle donne che avevano diviso con me quel gran letto sull’orlo del quale ora, nel mio pigiama di flanella, riflettevo sulla perdita successiva e inesorabile di tutte quelle donne, tutte quelle donne mi avevano lasciato, e dopo che l’ultima mi aveva lasciato non ero riuscito a trovarmene un’altra, come invece era successo prima, fino a quel momento quando una donna mi lasciava se ne faceva avanti subito un’altra e tutto si sistemava nel migliore dei modi, sparita la dentista si era presentata l’insegnante di ginnastica, sparita la ricercatrice di storia contemporanea avevo trovato la commerciante di cartoleria all’ingrosso, invece dopo che era sparita la direttrice della casa di cura nessuna si era fatta avanti ed ero rimasto solo, come dimostrava il fatto che me ne stavo seduto tutto solo sulla sponda del letto nel mio pesante pigiama di flanella, incerto se tenere i calzini per affrontare il gelo medioevale delle lenzuola, e intanto guardavo due luci lontane a mezza costa su per la montagna innevata, la tristezza della solitudine si mescolava con la tristezza della montagna innevata e di quelle lucine a mezza costa e mi domandavo se sarei mai riuscito a dormire in quel letto solitario, in cima alla torre, quasi in bilico su quelle rampe di scale, schiacciato dalla montagna incombente con le sue luci spettrali, ma queste domande e riflessioni non mi scaldavano, infatti ricominciai a starnutire e a rabbrividire e con una decisione repentina m’infilai, con pigiama, calzini e tutto, sotto le coperte, che per la verità erano calde e asciutte come dovrebbero essere tutte le coperte invernali, specie in vetta alle torri di montagna, specie quando uno deve dormire da solo perché non ha trovato uno straccio di donna che voglia stare con lui, specie quando ha fatto un lungo viaggio in treno affrontando disagi e stazioni piene di gelide correnti, specie quando ha la febbre influenzale e la tosse gli procura fitte insopportabili alla schiena e al petto quali potrebbe dare solo la maledetta sindrome di Pierre-Marie, un nome così dolce, quasi natalizio, per una malattia così orribile, ma in questi pensieri cominciai ad assopirmi, e mentre mi assopivo mormoravo Zenoburg, vetrino d’orologio, panettone Pierre-Marie, e poi i nomi delle mie passate compagne e tentavo anche di canticchiare Röslein, Röslein, Röslein roth, Röslein auf der Heiden, cercando di ricordare l’aria che le aveva dato Schubert e che nel pomeriggio le avevo dato anch’io nonostante la voce orribile che mi ritrovavo, e invece mi confondevo stranamente con la neve che continuava a cadere fitta fitta sulla montagna, su Zenoburg, sul tetto quadrato della torre proprio sopra la mia testa, mentre sotto di me sapevo che dormivano i miei amici, dormivano i miei cari amici nelle stanzette e nelle nicchie e sopra gli aggetti e le mensole della grande torre, e mi pareva di vedere la torre dall’esterno, da mezz’altezza, le spesse pareti trasparenti come cristallo, e ciascuno dei miei amici e amiche era coricato in un letto piccolo, alto e stretto, coi pugni chiusi e gli occhi chiusi, un lieve sorriso sulle labbra, il lustro naso a patata, i piedi sporgenti da sotto la trapunta, ed erano proprio figurine da presepio con quei capelli di stoppa e i baffi spioventi e i cappuccetti con la nappina, sembravano tanti Babbi Natale e Mamme Natale nel loro lettuccio e i più piccoli erano proprio Bambini Natale e Bambine Natale, abbandonati al sonno dopo una lunga giornata eppure ancora aggrappati a qualcosa di solido e diurno, e nell’aria andavano i fiocchi di neve e le note di Schubert e sentivo la mia voce salire limpida e pura come mai era salita, strano che là fuori, in mezzo alla neve che cadeva, non sentissi più freddo, non fossi più tormentato dai brividi, non avevo più nemmeno la tosse, la schiena non doleva e mi dicevo che il medico si era sbagliato, non era affatto la sindrome di Pierre-Marie quella di cui soffrivo, ma era la sindrome dell’uomo solo, ecco di che cosa soffrivo, ma ora contemplando il sonno di quegli omini e di quelle donnine rosei e paffuti e coi capelli bianchi e un po’ arruffati, anche la solitudine si stemperava, tutto oscillava come i fiocchi di neve e andavano i rintocchi delle ore piccole nel cuore più intimo e segreto della notte di Natale.