Nel decennale di Jenin e del suo “genocidio” immaginario
19 Aprile 2012
Dieci anni fa, nell’aprile del 2002, per reagire alle bombe umane nei bistrot e nelle discoteche delle principali città israeliane (28 attacchi in poco tempo), Gerusalemme invade con il suo esercito Jenin, nel nord di West Bank, verso la Giordania. Per difendersi dall’intifada dei martiri, i bulldozer israeliani si aprono la strada sminando il terreno "preparato" dal terrorismo palestinese. E’ guerra, quella vera, in una porzione di terra ridotta e densamente popolata, complicata dalla presenza di uno storico e popoloso campo profughi, dove Arafat e il suo clan hanno allevato e pescano giovani diseredati che vanno armati e suicidati. L’aviazione israeliana avrebbe potuto fare il lavoro sporco annichilendo la "resistenza" palestinese, ma Israele è sotto gli occhi del mondo, deve muoversi come un elefante in cristalleria. Il risultato, un massacro. Apparentemente. Nel periodo successivo all’attacco, la stampa anglosassone riporta le dichiarazioni degli ufficiali palestinesi: "Israele ha ucciso centinaia di palestinesi e gettato i loro corpi in fosse comuni a nord del Paese". Secondo Arafat, 1.000 civili sono stati brutalmente assassinati. Il "negoziatore" Erekat suggerisce alla CNN che almeno 500 profughi sono stati tolti di mezzo nei campi. Il segretario dell’autorità palestinese, Rahman, denuncia migliaia di vittime, parlando di "genocidio". Il 18 aprile, la BBC titola "le prove del genocidio stanno crescendo", citando un esperto forense inglese che ha visitato Jenin. Prima di definire i pestaggi del G8 alla Diaz e a Bolzaneto come "il più grave caso di sospensione dei diritti umani in un Paese occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale", Amnesty International spara: "La verità su Jenin salterà fuori, com’è successo in Bosnia e in Kosovo". Amnesty minaccia azioni legali contro Gerusalemme. E non c’è dubbio che quella di Jenin sia stata una battaglia feroce. Con morti da tutte e due le parti, uno scenario desolante dopo l’incursione israeliana, centinaia di edifici abbattuti, rovine, morti, feriti, un simbolo per i palestinesi e il mondo arabo, che però, stranamente, compiangono la morte di Mahomud Tawalbe, il capo della guerriglia target numero uno delle forze speciali di Davide, facendone un mito. Il tempo passa, le memorie si affievoliscono, e su tutto sembra cadere il velo vittimistico della grancassa palestinolatrica. Ma non è così. Alla prova dei fatti, il genocidio si ammoscia. Un’indagine di quel pericoloso agente sionista che risponde al nome di Nazioni Unite racconta che le vittime palestinesi sono state in tutto 54, in prevalenza uomini armati. 49 persone sono scomparse e non è chiaro quante siano morte e quante scappate per sfuggire alla cattura. Gli israeliani hanno perso 23 soldati. Un’inchiesta di Time conclude che di guerra si è trattato, non di "sterminio". E non che la guerra sia una cosa bella. La verità è che per molto tempo i media hanno costruito e servito in pasto al pubblico il solito prodotto decotto: Jenin simbolo della depravazione morale di Israele e dell’indicibile sofferenza del popolo palestinese, due stereotipi utili all’infotainment, una sorta di coazione a ripetere nella storia del Medio Oriente contemporaneo, destinata ad alimentare per sempre la spirale dell’odio e della vendetta.