Nel dibattito americano c’è un vuoto tematico: quello della politica estera

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Nel dibattito americano c’è un vuoto tematico: quello della politica estera

16 Dicembre 2011

Diciamo che nei libri di storia Barack Hussein Obama non verrà ricordato per particolari guizzi di politica estera. In questo campo, infatti, chi a Washington porta i calzoni è certamente Hillary Clinton: la quale era sicuramente la nemica pubblica numero uno del primo presidente mezzo nero d’America ai tempi della campagna elettorale e che altrettanto certamente ne è oggi una spina nel fianco.

Sì, perché la Clinton non ha mai davvero smesso di studiare da would-be presidente federale e la sua nomina al ruolo più importante e strategico di tutta l’Amministrazione statunitense l’ha rilanciata in grande stile. Il fatto che da qualche parte alla Casa Bianca si sussurri ora che l’ex First Lady si meriterebbe una “promozione” alla vicepresidenza indica infatti che probabilmente l’entourage obiamano non sopporta più quello clintoniano, il quale lo sorpassa, magari lo consulta poco, insomma fa da sé forse in attesa di lasciarsi alle spalle questa grigia stagione, procurando di far scordare all’elettorato di averne fatto parte. Rispetto al potere reale che la Segreteria di Stato americana ha e gestisce “in proprio”, la vicepresidenza federale è infatti solo chiacchiere e distintivo.

Ora, Madame Clinton, più o meno “costringendo” la Casa Bianca a seguirla, gestisce la politica estera statunitense secondo i propri gradimenti. Così, sullo scacchiere internazionale, qualche timido dubbio a proposito delle mai fiorite “primavere arabe” si alterna alle accuse d’irregolarità elettorali in Russia, e qualche parola più che altro di circostanza sulle migliaia di cristiani massacrati disinvoltamente ogni anno nel mondo cede subito il passo a più robuste rivendicazioni in favore della comunità GLBT internazionale in nome di un’idea fantasmagorica dei diritti umani. Mettiamo nel conto la gravissima crisi strutturale dell’Europa, cioè dei Paesi membri dell’Unione Europa, cioè ancora dell’eurozona, e ne otteniamo un quadro globale depresso e depressivo, rinunciatario e recessivo di quella cosa in sé nobile e grandiosa che chiamiamo Occidente.

Siamo, infatti, in guerra, probabilmente la quinta mondiale (le prime due le conosciamo per nome e per storia, la “terza” è quella caldissima che venne però definita “fredda”, la quarta quella contro il terrorismo internazionale). La quinta guerra mondiale non è meno feroce delle precedenti epperò si combatte in modo diverso. Pochi cannoni e pochi fucili, ma molti denari. La sua caratteristica dominante è l’economia. Ma, come ogni buona realtà economica, la sua natura non è principalmente economica. È demografica. I problemi di produttività, guadagno, spesa, ricavo, tasse, risparmio, lavoro e previdenza sono infatti da sempre questioni eminentemente demografiche. Le nostre società devastate sul piano economico tali sono per ragioni organicamente demografiche. E ogni ricetta che sia solo malamente economica – per esempio l’aumento delle imposte, l’innalzamento dell’età pensionistica, il non dimagrimento dell’apparato statale – deprime ancora di più il dato demografico anzitutto perché disincentiva e scoraggia a investire nel domani.

In Russia, per esempio, dove la “piazza” insorge a seguito della batosta subita nelle elezioni per la Duma dal partito dell’“uomo forte” Vladimir Putin, esiste sinceramente un problema democratico: ma alla sua base sta anzitutto un grave problema demografico, che però nessuno sembra voler vedere o affrontare. In Occidente, più in Europa che nelle Americhe, il dato sociale e sociologico più clamoroso è lo spaventoso tasso di denalità, anzi il vero e proprio “inverno demografico” che ci attanaglia, motivo per cui la società invecchia e i vecchi di oggi non riescono più a prospettare un futuro vivibile ai vecchi di domani.

Quando, dunque, Lady Clinton rampogna Putin dimenticandosi la voragine demografica che sconvolge la Russia, e anzi fa proselitismo in favore della cultura in tutti i sensi sterile del mondo GLBT, sbaglia target. E provoca più danni alla già fragile struttura democratica russa di quanto sia opportuno e lecito fare.

Perché in questo marasma demografico (il richiamo alla passione della Clinton per il mondo GLBT ci fa del resto ricordare che alla radice del problema demografico c’è – come sempre – un problema morale) l’Occidente si trova parate innanzi realtà che si chiamano Cina (più di 1 miliardo e 300 milioni di persone), India (quasi i miliardo e 200 milioni), islam (almeno 1 miliardo e mezzo di fedeli). Eccola qui la guerra, la quinta mondiale, di cui sopra, con l’Africa nel ruolo di terreno di conquista, scorribande e contesa: lo scontro fra questi soggetti economici sarebbe nulla se dietro non vi fosse la potenza dei numeri demografici, ma in questo quadro l’Occidente è l’anello debole della catena, il fanalino di coda, la potenza con l’esercito più striminzito e demoralizzato.

Come se ne esce? Difficile dirlo. Certamente non però affrontando i problemi della quinta guerra mondiale – calda, caldissima – come se fossero “semplici” problemi economici. E un pensierino pure al fatto che, ci piaccia o no, l’Occidente è una realtà storica e un blocco coerente soprattutto a fronte delle pressioni esterne, e che quindi varrebbe la pena di fare almeno di necessità virtù, andrebbe pur fatto.

In gennaio si apre la sfida diretta per le primarie dentro il Partito Repubblicano degli Stati Uniti in vista delle elezioni presidenziali d’inizio novembre 2012. A questa rubrica è concesso l’impagabile privilegio della libertà di dire comunque come la pensa e così non fa mai mistero di tifare per quella compagine contro Obama. Di per sé, ci andrebbe benone un Repubblicano qualsiasi fra quanti sono oggi in corsa piuttosto che la conferma dell’attuale Amministrazione. Meglio ancora sarebbe se vincente uscisse il migliore di tale compagine Repubblicana. Ma una cosa ci preoccupa seriamente. L’assenza tematica della politica estera nel dibattito in corso. Sappiamo bene che è così sempre nelle campagna elettorali statunitensi, dove si vince (o si perde) con gl’interni e non con gli esteri. Sappiamo pure che mediamente i Repubblicani in lizza oggi sono – o sono percepiti, o fingono di essere – mediamente più “isolazionisti” di quanto sia – sempre mediamente – accaduto negli scorsi decenni in casa Repubblicana. Nondimeno la cosa, in tempo di guerra aperta, ci preoccupa molto.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.