Nel divorzio tra Fiat e Confindustria la politica non c’entra nulla

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Nel divorzio tra Fiat e Confindustria la politica non c’entra nulla

05 Ottobre 2011

E’ scorretto e fuorviante far passare come scelta politica la decisione di Marchionne di tirare la Fiat fuori dalla Confindustria. Per quanto succinte, infatti, le ragioni del distacco vengono indicate nella lettera di addio in un continuum del dialogo cominciato quattro mesi prima, tra Fiat e Confindustria. Sono ragioni che riguardano il tema delle relazioni industriali e, dunque, le condizioni per produrre e investire in Italia. Ecco dove sta il problema e dove ricercare una spiegazione alla separazione; la politica, invece, non c’entra per niente.

Una lettura serena dei fatti (e della corrispondenza tra Marchionne e Marcegaglia) concede di capire quali siano gli elementi essenziali della questione. Tutto ruota attorno all’Accordo del 28 giugno, di cui è stata promotrice la Marcegaglia, conclusosi con la firma di tutti i Sindacati, anche della Cgil notoriamente restia a progetti di ammodernamento delle regole del mercato e del diritto del lavoro. Nel ragionamento di Marchionne, probabilmente, l’Accordo era visto come parte di un disegno di riforma per "creare le condizioni di rilancio del sistema economico del nostro Paese", di cui scrive sia nella prima che nella seconda lettera inviate alla “cara Emma” nel solco innovativo degli accordi separati di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco.

Inoltre, è probabile pure (oltreché legittimo) che Fiat si attendesse da Confindustria un maggior impegno nel definire un Accordo con contenuti tali da risolvere le questioni giudiziarie in atto sulle intese aziendali per gli investimenti di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco. Proprio su questa faccenda, invece, l’Accordo non ha dato alcun aiuto alla Fiat, tanto che Camusso ha potuto parlare di vittoria della Cgil per aver "bloccato una deriva nel segno della deregulation, della destrutturazione dei contratti nazionali". Infatti, sulla cosiddetta esigibilità del contratto aziendale (ossia la possibilità di disapplicare il contratto nazionale per riferirsi solo a quello aziendale, ciò che aveva fatto Fiat a Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco) l’Accordo non contempla l’efficacia retroattiva, risultando di fatto inutile a sanare le liti tra Fiat e Fiom; per di più escludendo alle intese aziendali la possibilità di derogare il contratto nazionale su prerogative “personali” dei lavoratori, segnando così un altro risultato a sfavore di Fiat, atteso che di questo tipo sono le intese impugnate da Fiom.

La firma dell’Accordo 28 giugno viene apposta da tutte le parti sociali il 21 settembre. Prima di tale data, però, succede qualcosa che spinge unitariamente le stesse parti sociali, Confindustria in testa, a sottoscrivere una clausola aggiuntiva (sono le famose “tre righe”). Succede, in particolare, che il Governo vara la Manovra di ferragosto in cui trova spazio il famoso Articolo 8 che contiene, tra l’altro, la norma salva Fiat. Che cosa fa quest’articolo? Fa due cose: 1) riforma le relazioni industriali legittimando l’opting out condizionato; dà cioè facoltà ai contratti aziendali e territoriali di realizzare intese in deroga ai contratti nazionali e alla legge se vincolati a specifici fini (cosa non riuscita all’Accordo 28 giugno); 2) estende a tutti i lavoratori le intese territoriali sottoscritte prima dell’Accordo 28 giugno (è questa la norma salva Fiat sull’efficacia erga omnes).

L’Articolo 8, dunque, accentua le previsioni dell’Accordo 28 giugno dando una spinta all’utilizzo flessibile delle intese territoriali e/o aziendali. Trattandosi di delega in mano alle parti sociali, risulta ovvio che il successo della sua applicazione è direttamente proporzionale alla volontà di Sindacati e Aziende ad esercitare tale delega. Ma questa volontà non c’è a prescindere: il 21 settembre, infatti, arriva l’ammutinamento di Sindacati e Confindustria che, in solo tre righe, smantellano la riforma delle relazioni industriali introdotta dall’Articolo 8, impegnandosi ad attenersi (solo) all’Accordo del 28 giugno e, soprattutto (questa è la parte che decide che l’Articolo 8 resterà sulla carta), “a far sì che le rispettive strutture, a tutti i livelli” (ossia tutte le rappresentanze territoriali e aziendali) facciano altrettanto. Tradotte in pratica, le tre righe sono un patto tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil a non applicare mai l’Articolo 8 e, peggio, a fare in modo che non mai venga applicato neanche da alcuna struttura territoriale o aziendale.

Così raccontati i fatti non possono che dar ragione a Marchionne del ritiro della rappresentanza alla Confindustria. Chi ha salvato la Fiat (e gli investimenti in Italia), infatti, non è certo stata la Marcegaglia con la sua azione concertativa con i Sindacati, ma l’Articolo 8 arrivato in extremis in Manovra e, peraltro, caldamente suggerito anche dalla Banca centrale europea. Dunque, perché mai rimanere in una Confederazione dove Fiat ha visto e vede sminuire la difesa dei propri interessi? Lo spiega lo stesso Marchionne: con la firma dell’accordo del 21 settembre, scrive nella lettera di separazione, è iniziato un acceso dibattito che, con prese di posizioni contraddittorie e con dichiarazioni di volontà di evitare l’applicazione degli accordi territoriali "ha fortemente ridimensionato le aspettative sull’efficacia dell’Articolo 8". Insomma, per Marchionne "si rischia di snaturare l’impianto dalla nuova legge e di limitare fortemente la flessibilità gestionale".

Non è stata dunque una scelta politica quella di far uscire Fiat da Confindustria; e neppure la banale “ripicca” nei confronti della Marcegaglia, come potrebbe sembrare a prima vista: il motivo è un altro e molto più semplice. Marchionne ragiona da imprenditore, e agli imprenditori più di tutto spaventa il fatto di dover operare in clima d’incertezza. "Fiat non può permettersi di operare in Italia in un quadro di incertezze che l’allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato", ha scritto Marchionne nella prima lettera alla Marcegaglia per poi ricordarlo in quella di addio. E’ per questo, allora, che alla fine il divorzio da Confindustria è risultata una scelta inevitabile, obbligata. Perché serve a condurre in porto tutti gli investimenti Fiat in Italia, per due ragioni. Prima, perché se fosse restata in Confindustria anche Fiat sarebbe rimasta vincolata a onorare il feticcio patto della Marcegaglia con Cgil, Cisl e Uil sulla non applicazione dell’Articolo 8. Seconda, perché Fiat ha puntato sulla contrattazione di prossimità per competere, in un mondo industriale globalizzato, con gli investimenti da fare in Italia. Insomma, è soltanto uscendo da Confindustria che Fiat può garantirsi quella "libertà di azione", di cui scrive Marchionne, necessaria a permettergli di applicare in modo rigoroso, non l’Accordo del 28 giugno, ma "le nuove disposizioni legislative" sulla riforma delle relazioni industriali (l’Articolo 8).